Ciao ❤️ Questo è il nuovo episodio di Invidiosa, la newsletter che prova a parlare di invidia in un mondo che ne prova tantissima ma fa finta di niente.
***Avviso: nella prima parte di questo episodio parla di suicidio. Se vuoi saltarla, puoi ricominciare a leggere dal settimo paragrafo. E se dovessi trovarti in una situazione di emergenza, chiama il numero 112. Se tu o una persona che conosci dovesse avere pensieri suicidi puoi chiamare il Telefono Amico allo 02 23272327 o contattare qualcuno da questo sito.***
C’è una storia che mi trascino da almeno un anno. Non ho mai trovato l’occasione giusta per parlarne, e non sono nemmeno sicura che questa lo sia. Quando ho iniziato a buttare giù la scaletta di questa Invidiosa, però, mi sono ritrovata spesso a pensare alla storia dei Miller. All’inizio, infatti, avrei voluto solo parlare dell’ossessione che abbiamo per il genio. O almeno, l’ossessione per una certa retorica del genio. Scrivendo, mi sono resa conto che una delle cose più affascinanti di questa ossessione è che in nome dello status di genio tendiamo a ignorare un sacco di altri segnali, limiti o circostanze. Perché lo facciamo? Penso che partire dalla storia di Brandon e Candice Miller può aiutarmi a capire un po’ di cose, anche prendendola un po’ alla larga.
Verso fine agosto 2024, ho incrociato questo articolo del New York Times: “How a Instagram-perfect life in the Hamptons ended in tragedy” (cioè “Come una vita instagrammabile negli Hamptons - le case estive dei ricchi newyorkesi - è finita in tragedia”). L’ho aperto aspettandomi di trovare qualche riflessione sul social media, e in parte era così. Il cuore della storia, però, è ancora più paradigmatico e senza tempo di quanto potessi immaginare.
Il 3 luglio Brandon Miller, padre e immobiliarista di punta a New York, si era ucciso nella casa di famiglia negli Hamptons, schiacciato da una gigantesca mole di debiti. Candice Miller, moglie e influencer, in quel momento si trovava in Europa con le figlie, inconsapevole di tutto.
Miller lavorava nello sviluppo di proprietà commerciali a New York, attività molto remunerativa finché non è arrivata una cosa come la pandemia a rendere inutile la stessa idea di “ufficio” per quasi due anni. In questo settore, buona parte degli affari si basa su prestiti e garanzie che, spesso, fanno leva su risorse ipotecate. Nel momento in cui i progetti a cui stava lavorando si sono bloccati, l’unica soluzione che Miller aveva per continuare a lavorare era ipotecare i propri beni.
Nel frattempo, però, lo stile di vita dei Miller non è cambiato. Lo si vede dalle carte processuali e lo si poteva vedere dal feed Instagram della moglie: le feste, gli acquisti, i viaggi, la vita che aveva reso il suo account appetibile per 80.000 follower non aveva mostrato una singola increspatura. E pare che Candice Miller fosse davvero inconsapevole dello stato, finanziario ed emotivo, del marito: lo dimostrerebbero sempre i documenti presentati al processo insieme ad alcune scelte fatte da Brandon Miller, che avrebbe minimizzato i loro problemi finanziari in diverse occasioni.
Ora, non so quanto senso abbia cercare un perché dietro le scelte di Miller. Per questo tipo di storie, però, ho sempre provato un fascino ambiguo, una sorta di vertigine. Vuoi per esperienze personali, vuoi per la necessità di una catarsi, le storie di fallimento mi attirano. Quello che mi interessa di più non sono le cause o le conseguenze che queste vite si portano dietro, ma quanto i protagonisti di queste storie rifiutino il loro cambio di status. Quanto può essere doloroso passare dall’avere una vita invidiabile all’essere una persona da compatire?
La perdita di una condizione - sociale, economica, affettiva - e la necessità di dover affrontare le conseguenze delle proprie azioni (o delle proprie sfortune) possono portare a un rifiuto paralizzante, se non a una pericolosa dissociazione dalla realtà. Non solo non si fa nulla per mitigare i danni del disastro, ma si persevera nelle attività che hanno causato quel disastro. C’è un bisogno quasi scaramantico di lasciare tutto com’è, anche se la realtà chiede il conto. Nelle versioni più tragiche di queste storie i protagonisti si rifiutano di chiedere aiuto, mostrare debolezza o cambiare il loro stile di vita perché questo potrebbe rompere l’autosuggestione, rendendo la realtà catastrofica inevitabile. Se la compassione concretizza un fallimento, essere l’oggetto dell’invidia riconosce, invece, il nostro status sociale? Il senso del detto “meglio invidiati che compatiti”, alla fine, sta tutto qui. La compassione ci mette in uno stato di debolezza e sudditanza; essere oggetto dell’invidia, invece, ci mette in una posizione di potere. Ed è qui che credo stia il collegamento tra la storia dei Miller e il legame che abbiamo con la retorica del genio.
Avevo già parlato di come l’invidia, per alcune persone, è l’unità di misura del proprio successo. Oggi vorrei provare a capire meglio chi sono quelle persone, perché hanno bisogno di essere invidiate e che ruolo ha il Genio nelle loro vite. Per farlo, parto da un esempio piuttosto masochista: le risposte medie di un elettore (o di un bot) di centrodestra quando si critica l’attuale Governo.
“Malooooox”
“Sapete solo rosicare”
“A qualcuno qui fa male il fegato, eh?”
Per ribadire la propria posizione di potere, si dipinge la parte avversaria come rosicona, invidiosa, incapace di accettare una sconfitta. Questo non è solo un modo di sminuire le istanze dell’avversario politico, ma anche di evidenziare quanto la propria condizione sia diventata “invidiabile” dopo anni di presunta marginalità - politica, culturale, internazionale. Prendiamo l’elettorato di riferimento del nostro attuale Governo: continuare a sentirsi una vittima riscattata ma perennemente insidiata nonostante una maggioranza molto solida e consensi crescenti - “non capisco questi rapper col nemico immaginario (cit.)” - permette non solo di alimentare una sempre valida retorica del risentimento, ma anche di compensare risultati che, all’atto pratico, non ci sono stati o sono stati carenti. Continuare a schiacciare i “nemici” è sufficiente, e di sicuro è godurioso.
Una frase che ho letto con una certa frequenza dopo il 5 novembre 2025 da parte di account statunitensi era la gioia per essere riusciti a “owning the libs”, frase usata nel 2022 da Elon Musk e poi diventata di uso comune (e per il quotidiano Politico, è praticamente la linea guida della Casa Bianca). Nella pratica, come scrive Paolo Mossetti per Iconografie, si tratta di:
«sottomettere» o «umiliare» i liberal, un’etichetta che comprende qualunque progressista che si batta per cause come il cambiamento climatico, la regolazione del mercato delle armi e i diritti delle minoranze.
Ora, la gioia per una “vittoria” normalmente non comprende il carico di violenza e vendetta che il bisogno di umiliare qualcuno si porta dietro. L’unica spiegazione che riesco a darmi per questo è - oltre la polarizzazione del discorso - una continua retorica del risentimento, la necessità di una parte letteralmente al potere di sentirsi sotto attacco. E se è un po’ paradossale pensare che questo comportamento arriva dalle stesse persone che definiscono il socialismo come “l’ideologia dell’invidia”, nella pratica stiamo parlando di persone che in parte sono e in parte si percepiscono alla base della catena alimentare sociale. Persone con un reddito medio-basso, persone che si sentono escluse dalla produzione culturale, persone che non hanno la rilevanza sociale che sentono di meritare.
Non è che la sinistra - o il progressismo - sia al sicuro da determinate tendenze. Mancando vittorie concrete, però, il progressismo sceglie di abbracciare la strada della superiorità morale, della purezza d’animo. Quello che manca, però, è l’elemento del rancore e della rivincita su cui vorrei concentrarmi in questo episodio.
Alla fine del suo video-saggio su Twilight - dura tre ore, ordina una pizza e mettiti a tuo agio perché ne vale la pena -, la mia amata Contrapoints cerca di capire perché gli esseri umani provano attrazione/desiderano identificarsi con il predatore (in questo caso, il vampiro Edward Cullen). Secondo lei nasce tutto da quello che il buon vecchio Nietzsche aveva identificato come “volontà di potenza”, un’aspirazione che, nei casi descritti poco fa, è frustrata al massimo. Ci sono due modi di convivere con questa frustrazione: invidiando o proiettando. Nel primo caso, si affronta il sentimento e ci si scontra con la propria inferiorità. Nel secondo caso, ci si identifica con qualcuno o qualcosa che sentiamo vicino per idee, storia e obiettivi. Ed è qui che entrano in scena il “genio” e la sua apologia da parte di chi vorrebbe essere T-Rex ma - di fatto - è Piedino della Valle Incantata.
Quello che abbiamo visto con Elon Musk negli ultimi mesi, secondo me, rende perfettamente l’idea del meccanismo che ho appena descritto, riassunto da questo meme:
Anche quando le sue idee erano molto diverse da quelle attuali, Musk (insieme a molti altri “colleghi” della Silicon Valley) è stato descritto come il Tony Stark che avrebbe finalmente vendicato la reputazione dei nerd di tutto il mondo. Attraverso di lui - ma anche attraverso persone come Zuckerberg o Bezos - i nerd finalmente potevano aspirare ad avere la ricchezza, il rispetto e il potere che i loro cervelli meritavano. Dopo decenni di marginalità e bullismo, gli “sfigati” stavano scrivendo la Storia: la loro vita non era più limitata al mondo accademico e scientifico, ma potevano diventare miliardari cambiando il modo in cui comunichiamo, ci informiamo, scambiamo beni, ci spostiamo e votiamo. La questione più succulenta di questa rivincita dei nerd stava nel fatto che i soldi e il “merito” stavano finalmente iniziando a parlare la stessa lingua. Fino a quando è stato capo del DOGE - cioè fino a quando il Dipartimento dell’Efficienza Statale e le sue aziende non si sono schiantate con la realtà - buona parte delle sue decisioni sono state sostenute per il semplice fatto che è un “genio”. Questa definizione è in parte nata dal successo delle compagnie che ha gestito/finanziato/sulle quali ha messo la faccia, in parte da una narrativa che lo rappresenta come “inventore visionario” (Musk ha una laurea in economia e una in fisica ma non si è mai occupato di ricerca), la cui eccezionalità Musk stesso ha attribuito alla sua autodiagnosticata neurodivergenza.
Ora, la progressiva normalizzazione dei nerd - da macchiette occhialute con epistassi a persone e personaggi culturalmente influenti tra serie tv, letteratura e giochi - è avvenuta in parallelo al sempre più stretto connubio tra genialità e ricchezza. Come giustamente scrive Fabrizio Acanfora, persone come Musk contribuiscono a rendere accettabile la neurodivergenza solo quando è ad alto funzionamento in un sistema capitalista, cioè quando è competitiva e profittevole. Come dicevo prima, anche la combo nerd+ricchezza è vincolante. Finché essere secchioni porta profitto e status sociale - uno status invidiabile, finalmente -, la genialità è un valore assoluto che non deve guardare in faccia nessuno. Ma soprattutto, non c’è niente di più meritocratico della genialità: la società premia - finalmente - chi è più intelligente o chi usa la propria intelligenza per spostare i limiti del fattibile un po’ più in là. Rispetto a gruppi sociali che hanno premiato la forza, la prestanza fisica o anche solo l’aspetto, questa rivincita è un bel riscatto per i cervelloni. Dalla base alla cima della piramide.
In teoria.
La trappola dello status invidiabile, infatti, spesso nasconde o camuffa i grandi segnali contraddittori che potrebbero dovrebbero mettere in dubbio la situazione in cui ci troviamo o la persona verso la quale stiamo proiettando le nostre necessità. È successo ai coniugi Miller e succede anche a chi tratta la genialità di Musk come lasciapassare per ogni sua azione o pensiero.
La ricchezza dei Miller si basava su scommesse sicuramente remunerative, ma estremamente rischiose. Nonostante questa volatilità, però, l’idea di ridimensionare il proprio stile di vita per gestire meglio i problemi finanziari della famiglia non è stata nemmeno presa in considerazione. Lo status invidiabile dava l’illusione di avere un potere tale da riuscire a cambiare il corso delle cose.
Allo stesso modo, l’aura di genialità che circonda Musk è piena di falle che chi lo sostiene tende a ignorare o minimizzare. La ricchezza della famiglia d’origine, il fatto che non abbia “inventato” nulla ma co-fondato o gestito le aziende che l’hanno reso famoso, il valore reale di Tesla composto principalmente dalle sue azioni, le idee apertamente razziste e improntate all’eugenetica sono sempre state presenti nella carriera di Musk, ma in nome della narrativa del genio che crea ricchezza gli è stato concesso tutto. O meglio, com’era prevedibile, è andato tutto bene finché la mancanza di risultati e l’aver scazzato con mezzo entourage di Trump non hanno messo Musk all’angolo.
Attenzione però a considerare il fascino per la genialità un’ossessione puramente capitalista, fatta di meritocrazia e produttività: l’ossessione per il Genio, l’essere umano che cammina 3 metri sopra di noi, è una cosa che ci portiamo dietro dal Rinascimento e da Vasari. Senza scomodare Marx, il genio ha una capacità trasformativa sul mondo che è da sempre attraente per la maggior parte delle persone, la cui influenza sul mondo è limitata. Il controllo che il Genio ha sulla realtà - realtà che invece la maggior parte di noi subisce - ci attrae perché ci permette di instaurare un dialogo alla pari con il potere e la sua distribuzione randomica. Quando abbiamo bisogno di esternalizzare il nostro senso di impotenza, è ai Geni e alle “persone invidiabili” che guardiamo. Ecco perché passiamo un sacco di tempo dietro i biopic, i premi, i profili Instagram con un feed invidiabile: abbiamo bisogno di provare affinità con un potere che, realisticamente, non abbiamo. Perché è sempre meglio pensarsi invidiati che compatiti, soprattutto quando scopriamo di essere l’oggetto stesso della nostra compassione.
Tutta invidia - Io adesso voglio un archivio
Se non si fosse capito, io non amo molto i film “sulla vita di”. Una cosa che mi fa impazzire, invece, sono i progetti che utilizzano il materiale d’archivio - documentari, podcast, Techetechetè, biografie con scambi epistolari - e lo rimontano in modo nuovo, presente. Ecco, quando ho iniziato ad ascoltare “Identità operaie”, il podcast di Giuseppe Parisi (qui su Substack come ) sulla SOMSI - la Società Operaia di Mutuo Soccorso e Istruzione - di Cividale del Friuli, non avevo idea del ruolo che gli archivi avrebbero avuto in questa storia. Giuseppe Parisi prende diari, resoconti, note contabili, inventari, articoli di giornali e ci costruisce attorno la storia e il senso della SOMSI di Cividale, restituendola a persone con una storia lontanissima da Cividale o dall’associazionismo operaio - a Catania, dove sono cresciuta, non c’è mai stata una traccia altrettanto forte mancando… le industrie. Non era un lavoro semplice o scontato, ma la regia di Giuseppe, che alterna narrativa a documenti - è davvero equilibrata. Io mi auguro tanto che ci sia una seconda stagione, ma per ora mi accontenterei di avere un archivio da spulciare.
L’immagine di copertina è stata presa da imgflip.com.
© 2025 Angela Cannavò.
Le illustrazioni della newsletter sono di Giovanni Nava.
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Grazie aver dedicato un po’ di tempo a me e a questa newsletter. E visto che sei qui, abbiamo qualcosa da invidiarci?
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Bellissima puntata, adesso avrò bisogno di qualche giorno per rifletterci su.
Mi è piaciuta molto questa tua puntata sul l'invidia e sul preferire essere invidiati che compatiti. In effetti per molti è così. Io invece ho sempre avuto terrore dell' invidia altrui, perché l'ho sempre vista e vissuta come subdola e rischiosa (paura di vedermi portare via quello che finalmente ho conquistato). Ma la cosa più interessante è stata il concetto di genio. Il genio, che spesso è una persona incredibilmente dorata in un settore specifico è il canale delle nostre proiezioni: lo adoro perché vorrei essere lui.
Due riflessioni:
1) il maschile non è un caso. Avete mai sentito parlare di una genia? Io no.
2) Le grandi opere della storia spesso sono frutto di un lungo, complesso lavoro collettivo (le piramidi, le chiese gotiche, ad es., l'odissea tradotta nelle varie lingue, un altro esempio). Ma il genio è sempre uno, unico, vive di sé stesso senza aiuto alcuno. O così vogliamo vederlo.