L’invidia, il puritanesimo e la sinistra in Italia
Il triangolo che non avevo considerato.
Questo è il nuovo episodio di Invidiosa, la newsletter sulle cose che fanno gli altri mentre io sto a guardare. Questa volta esco un po’ in ritardo perché “la vita vive” (semicit.) 👋
In estate è esplosa su Instagram una “piccola” polemica a proposito di uno sticker che chiedeva, nelle stories, di raccontare quali capitali del mondo avessi visitato. L’ho beccato anche io: l’ho compilato mentalmente, ho confrontato il risultato con quello di chi lo postava e sono passata ad altro, pensando che a nessuno interessasse sapere se ho visto Parigi o Hanoi.
In generale, io su Instagram pubblico davvero poco. Un po’ perché sono una gran pigrona, un po’ perché sento una strana forma di pudore che nasce da questa idea: della mia vita personale, a chi mi segue, importa fino a un certo punto. Non lo scrivo con vittimismo, rancore o “presa a male”, e non c’è nessun giudizio verso chi sceglie di condividere la propria vita online. È umanissimo voler parlare di sé e credo sia una dote riuscire a raccontarsi in modo da restituire alle persone qualcosa che possa arricchirle, divertirle o dare loro un’altra prospettiva. Ci sono persone che ci mettono mondi dentro un post (per dire, come si fa a non voler bene a Francesca Crescentini dopo questo?), ma il tarlo del “davvero interessa a qualcuno?” io non riesco a togliermelo.
In questo caso, raccontare quali capitali ho visitato non era nemmeno in discussione: non mi diceva nulla di chi lo postava e non avrebbe detto nulla di me. Se a me, però, non sono suonati altri campanelli, per molti profili dentro questo trend c’era un problema di “show-off”, cioè l’utilizzo di Instagram per fare sfoggio del proprio privilegio. Le pagine ÆSTETICA SOVIETICA e ThePeriod, per esempio, hanno sollevato un punto interessante: partecipando alla “challenge” si finiva per esaltare le proprie possibilità economiche, perché chi ha più soldi ha visitato più capitali, e quindi spuntato più caselle. A questo, le due pagine hanno aggiunto una riflessione sul modo in cui usiamo i social (ma non sui social in sé): postare i propri viaggi rischia di ridurli a un’attività imitativa, in cui da un lato mostriamo la nostra possibilità economica e dall’altro rispondiamo alla FOMO, cioè l’ansia di non partecipare a un grande rito collettivo. A chi non può permettersi di partire - e guarda il mondo da dietro a uno schermo - rimane un’estate di insoddisfazione, rosicamento e invidia. Un’estate di FOMO.
Dall’altro lato, ha fatto delle riflessioni molto importanti in un post a proposito della questione. Instagram, infatti, è pensato per raccontare con le immagini, per mostrare. E certo non è facile trovare creator che parlino di viaggio in modo rispettoso e sostenibile: seguire queste persone dipende esclusivamente da noi. Allo stesso tempo, puntare il dito su come le persone usano la piattaforma ignora le ragioni per cui queste diseguaglianze esistono e ci fanno penare. Si guarda il dito mentre si dovrebbe ululare alla luna.
Aggiungo una cosa: ha senso fare queste discussioni su una piattaforma che ci dà contenuti in cambio del nostro tempo, dei nostri dati e della nostra attenzione? Se la nostra relazione con i contenuti è principalmente passiva - guardo, scrollo e forse commento -, quanto è probabile che si crei un senso di frustrazione e impotenza? Come dicevo prima, la FOMO ci spinge a meccanismi imitativi perché ci mostra un’idea di felicità che noi, in quel momento, non abbiamo. Solo imitando la persona che stiamo invidiando potremo raggiungere quel senso di benessere. Ci sono passata, l’ho pensato e invidio chi si spalma su un gommone già i primi di giugno. Così come mi sono sentita un esempio di virtù o “troppo impegnata a vivere” (che snob, che snob!) pensando che IO non intaso il feed di nessuno. Ma basta fare “privilege-check” sulla propria vita per avere dei social più “egualitari”? E il “brava” che mi sono data è genuino o è solo un contentino che mi aiuta ad accettare di aver fatto un solo giorno di mare nell’estate del 2024?
E ancora, mettendo in luce un comportamento potenzialmente problematico, riusciremo ad avere persone più responsabili sui social? O stiamo usando una leva morale che ci ridà controllo?
Io credo che la risposta sia “Sì” a tutte queste domande.
Virtuale è reale. Online possiamo raccontare e mostrare quello che ci pare, ma non sarebbe male ricordarsi che abbiamo una responsabilità. E questo vale a prescindere dalla quantità di persone che possiamo raggiungere col nostro profilo: quello che scegliamo di condividere - per quanto curato o autentico - può avere un impatto reale sulla vita di un’altra persona. Può farla sentire più ignorante, più povera, più sola, più arrabbiata. Non è un caso - e per me non è nemmeno un’eresia - che si sia iniziato a chiedere a creator e influencer conto e ragione del racconto che scelgono di fare. Perché uno stile di vita inaccessibile per la stragrande maggioranza delle persone forse non alimenterà di fatto le diseguaglianze, ma è sicuro che il prezzo psicologico lo paga chi può solo stare a guardare.
Allo stesso tempo, mi chiedo se denunciare questo tipo di comportamenti come “privilegio” non sia un modo per compensare l’invidia che proviamo verso chi ha una vita migliore della nostra (o che ci fa credere di averla). Mesi fa ho scritto un episodio dove provo a capire se la giustizia sociale fosse invidia ideologizzata (spoiler: no), ma qui c’è qualcosa che stona e credo abbia a che fare con il carico di vergogna che l’invidia si porta dietro. Perché è un comportamento socialmente inaccettabile: denuncia il nostro senso di inferiorità e dentro di sé porta sempre un piccolo germe di odio. Non è facile guardarsi allo specchio e sentirsi così “meno di” da provare un desiderio di rovina per l’altro. E forse è per sublimare alcune nostre rosicate che raccontiamo il risentimento come una ricerca di purezza o una legittima rivendicazione di giustizia sociale, cosa che lo giustificherebbe moralmente. Almeno ai nostri occhi.
Però io vedo un grande pericolo in questa confusione, perché si finisce col trasformare quello che non possiamo avere in qualcosa da disprezzare. Lo spiega benissimo Contrapoints nel video che ho citato così tante volte che un giorno mi denuncerà. Qual è il cambiamento che dovrei mettere in pratica per far stare meglio chi non può viaggare, secondo le critiche al trend? Viaggiare in modo consapevole? Smettere di alimentare trend un po’ stupidi su Instagram? Smettere di postare le foto dei miei viaggi su Instagram? Io non l’ho davvero capito, e secondo me è un problema. Perché, oltre l’indignazione, credo che tutte quelle persone schiacciate dalla frustrazione meritino una risposta più concreta di “smetto di pubblicare i miei viaggi su Instagram”.
Sempre su questo tema aveva fatto delle storie sintetiche e precise da recuperare, che evidenziano un altro punto fondamentale: c’è una grossa differenza tra privilegi e la presunta “scarsità dei diritti”. Prendo un’estratto, ma il discorso è più ampio e vale la pena leggerlo per intero:
Uno dei capolavori meglio riusciti dell’ideologia capitalista è stato quello di instillare nelle menti dei cittadini che i diritti siano beni scarsi, sottrattivi e di lusso così da poter rendere meno odioso l’arretramento di welfare state e servizi e, di fatto, eradicare sul nascere ogni forma di rivendicazione politica.
Le pensioni? Un contratto a tempo indeterminato? Il diritto alla casa? Maledetti privilegi dei boomer! (O sono dei diritti negati alla nostra generazione?)
L’invidia si basa sul principio di esclusività, l’invidia non vuole condividere nulla. Chi invidia desidera avere per sé quello di cui sente la mancanza, anche a costo di togliere ad altre persone. Sublimare l’invidia con la moralità fa esattamente questo, con la differenza che la privazione è rivolta a noi (“Almeno IO ho il buon gusto di non flexare i miei viaggi”).
Questa postura secondo me rischia di alimentare un bisogno di purezza all’interno della sinistra che - veto dopo veto - farà fuori istanze troppo “popolari” o che richiedano una qualche forma di compromesso. Sempre Shaebi, in una puntata della sua newsletter, aveva affrontato il tema della coerenza a proposito del suo lavoro come autore per il programma “Le Iene” e della moralità social. Il risultato, secondo lui, è questo:
Negli anni immediatamente successivi alla pandemia questa piattaforma ci ha aperto nuovi mondi e nuovi spazi di riflessione. Poi ci siamo tutti trovati ad un bivio: dare forma politica a questa nuova forma di attivismo, costruendo un’alternativa, o continuare a definire cosa non va nel mondo, restando appiccicati alla fase decostruttiva. Abbiamo scelto la seconda.
Altro esempio concreto di diversi mesi fa, che dà una prospettiva interessante sulla questione: la polemica social sull’immagine “All eyes on Rafah”.
A fine maggio, con l’illusione di scongiurare l’entrata dell’esercito israeliano a Rafah (che poi è entrato, ignorando le indicazioni sulla “zona sicura” che aveva dato a inizio invasione e ha continuato a massacrare persone), una storia con la scritta “ALL EYES ON RAFAH” ha girato sempre con la modalità “Tocca a te” di Instagram. Non ha spostato nulla, non ha cambiato niente nella vita delle persone palestinesi intrappolate a Gaza. Ha fatto però crescere molto le ricerche online su cos’è Rafah e cosa stava per succedere. Una cosa minuscola. Che forse si è trasformata una persona in più che sceglie di scendere in piazza. O in una persona che ha scelto di donare all’UNRWA. O ancora in una persona che riesce a contestualizzare una notizia parziale o riportata in sfacciata malafede. O forse era solo un modo per ammorbidire la frustrazione. Fatto sta che ho visto un muro di stories bucare la mia bolla social e raggiungere persone che fino a quel momento non si erano mai esposte (e non solo su Gaza, sull’attualità in generale).
Il giorno dopo, diversi profili che fanno attivismo su Instagram hanno condannato la storia e in generale, la ricondivisione. I motivi, riassumendo, erano questi:
è l’ennesimo trend da tritacarne social, che ha funzionato perché la FOMO ci spinge a imitare senza approfondire;
dietro l’immagine, infatti, c’era poca se non nessuna spiegazione: era una brutta illustrazione fatta con l’IA e decontestualizzata;
realisticamente, chi ha condiviso l’immagine negli ultimi mesi ha parlato poco o niente di Gaza.
Non voglio entrare nel merito delle critiche - secondo me ce ne sono alcune valide e altre meno concrete - ma sul bisogno di criticare un’azione che, sulla carta, è stata fatta con uno spirito “alleato”. Perché quando si vuole parlare di Gaza - o di femminismo, o di cambiamento climatico o di tasse - sembra ci sia un solo modo giusto di farlo. C’è un modo radicale e senza spigoli, che è il modo giusto, e il modo confuso, sfaccettato e “pop” che è tendenzialmente sbagliato. E se è sacrosanto preoccuparsi quando il movimento Black Lives Matter viene incastrato dentro il quadratino nero di un’immagine profilo e svuotato delle componenti di lotta, io non lo so quanto aiuti la causa “bacchettare” una massa che si avvicina al tuo movimento secondo modalità che hanno avuto più successo delle tue. La sensazione che mi ha lasciato questo dibattito l’ha raccontata benissimo (musa delle mie ultime Invidiose) con parole che vorrei fossero state mie:
E sarebbe bello, e utile, che chi fa attivismo sui social sapesse educare, divulgare, informare, senza giudicare, e tenesse a mente che le persone che abitano gli spazi online non sono tutte uguali perché i contesti in cui vivono, il loro livello di educazione, le loro possibilità e soprattutto le energie che possono dedicare alle cause ci sono sconosciute, perché i social non sono la vita vera.
L’invidia è sporcizia. È quella giuntura piena di grasso che esiste anche nelle case più linde, perché si nasconde dove è difficile pulire e in fondo speri che nessuno la veda mai. Però rimane lì, e credo che non farci i conti possa rivelarsi abbastanza controproducente. Non sono solo, o sempre, le idee più nobili a muoverci e scegliere di premiare un comportamento come “virtuoso” potrebbe non avere l’effetto sperato. È giusto e sacrosanto ragionare su come possiamo stare meglio online, ma facciamolo con onestà anche verso i nostri sentimenti più umani e riprovevoli. Così le idee per le quali vale la pena lottare, quelle che davvero fanno la differenza per più persone possibili, saranno ancora più splendenti.
Dal Sistema Periodico di Primo Levi, che puoi ascoltare su RaiPlay Sound:
“...il così tenero e delicato zinco, così arrendevole agli acidi che ne fanno un sol boccone, si comporta invece in modo assai diverso quando è molto puro, allora resiste ostinatamente all’attacco. Se ne potevano trarre due conseguenze filosofiche contrastanti: l’elogio della purezza, che protegge dal male come un usbergo; l’elogio dell’impurezza, che dà adito ai mutamenti, cioè alla vita. Scartai la prima, disgustosamente moralistica, e mi attardai a considerare la seconda, più congeniale. Perché la ruota giri, perché la vita viva, ci vogliono le impurezze, e le impurezze delle impurezze. Anche nel terreno, com’è noto, se ha da essere fertile ci vuole il dissenso, il diverso, il grano di sale e di senape. Il fascismo non li vuole, li vieta e per questo tu non sei fascita: vuole tutti uguali e tu non sei uguale.”
Tutta invidia - Vertigine
Che newsletter sull’invidia sarebbe senza qualcosa che mi ha fatto rosicare?
Ti è mai capitato di pensare “Vorrei saper scrivere come X”? Ecco, io credo di avere un po’ esagerato: di recente avrei voluto sapere scrivere come il collettivo che ha scritto i reportage di ”È giusto che finisca così” - il primo “Libro della vertigine” di CTRL. Il volume - che è proprio un bell’oggetto - è uscito più di un anno fa e si porta dietro gli strascichi di una pandemia che sembra quasi un ricordo d’infanzia. Il respiro di tutte le storie raccontate, giganti e comunque personalissime, mi ha dato la sensazione di stare sull’orlo del pozzo, a guardare dall’alto tutto quello che vorticava giù. E avrei voluto saper scrivere come ogni singola persona che ha partecipato a questo libro, con tutte le loro differenze. O forse vorrei avere l’intuito che serve a trovare l’universale in una storia senza epica. Che bellezza, che bravura, che invidia.
P. S. Ringrazio Giovanni Nava per le illustrazioni e tutte le cose belle di Invidiosa.
© 2024 Angela Cannavò.
Le illustrazioni della newsletter sono di Giovanni Nava.
Se vuoi leggere i vecchi numeri di Invidiosa, trovi tutto in questa pagina.
Grazie aver dedicato un po’ di tempo a me e a questa newsletter. E visto che sei qui, abbiamo qualcosa da invidiarci?
Fammelo sapere con un cuore, un commento o parlando di questa newsletter con chi ti va.
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Che bomba di newsltter Angela!
Le tue invidiosa sono sempre un'ispirazione.
E anche se non porto risposte (ma solo domande), mi fa sentire meno sola vedere che c'è qualcuno che se le pone come me.
Io in risposta a questa relazione (un po' tossica) con i social ho drasticamente ridotto la mia presenza, togliendo l'app dal telefono e mantenendo solo la versione da browser (molto più limitata negli utilizzi). Perché, banalmente, mi rendeva triste.
Come dicevo, non ho risposte. Una riflessione però la faccio: è l'utilizzo delle piattaforme come metodo capitalistico per venderci uno stile di vita che non avremo mai, oppure fomo per la vacanza della mia migliore amica? Ora, io non so, ma sono sempre stata contenta per tutte le belle cose che accadono alle persone che amo (amiche comprese); un po' meno di vivere in un'eterna frustrazione da "non sarò mai/non andrò mai/non farò mai" etc etc etc.
Come direbbe il Manzoni: ai posteri l'ardua sentenza.