Questo è il nuovo episodio di Invidiosa, la newsletter sulle cose che fanno gli altri mentre io sto a guardare 👋
“Il socialismo è la filosofia del fallimento, il credo dell’ignoranza e il vangelo dell’invidia.”
Winston Churchill - 1948
Qualche mese fa ho letto questa citazione nel post di un ricercatore che raccontava le contestazioni ricevute, simili a quelle verso il direttore di Repubblica Maurizio Molinari, all’università Federico II di Napoli. Non mi era mai capitata sotto gli occhi prima - ammetto di conoscere Churchill quanto basta - ma non è la prima volta che vedo socialismo, comunismo o, addirittura, la democrazia etichettati come semplice invidia sociale. Per dire, quando è morto Berlusconi avevo notato con poca sorpresa che l’argomento principale utilizzato dagli ammiratori per difendere il premier dalle critiche era “La vostra è tutta invidia”.
Nei giorni in cui riflettevo su quel post, sono finita in questo thread di Reddit:
Tra le varie risposte, più o meno generiche, c’era questa:
Insomma, ho davanti due storie che si fanno da chiasmo: una parte dall’idea che desiderare una società egualitaria - rimaniamo specifici al socialismo - con l’abolizione della proprietà privata e la ridistribuzione delle ricchezze sia un tentativo dell’invidia sociale di impedire ogni forma di miglioramento; nell’altra, la sofferenza per una condizione sociale ed economica svantaggiata viene subito etichettata come invidia, ma qualcuno dà un’interpretazione diversa, quella della lotta di classe. Cosa c’è lì dove le due linee si toccano? E cosa porta queste due linee a conclusioni così distanti - da un punto di vista qualitativo - eppure così vicine da un punto di vista del contenuto? Vorrei provare a capirlo oggi ma ti chiedo un po’ di pazienza: ho una pessima preparazione in filosofia e sociologia. La questione però era troppo interessante per non mettermi a fare i compiti. Se ci sono errori, cattive interpretazioni o vere e proprie baggianate, segnalamele: metterò una nota per correggere dove necessario. E adesso, partiamo.
Te lo ricordi Adam Smith? Quello della “mano invisibile” e del mercato che si autoregola, rispondendo con l’offerta lì dove si crea la domanda? Ecco, lui è il padre del paradigma neoclassico in economia, e secondo l’interpretazione principale vede nell’egoismo il principale motore delle azioni umane: il panettiere non fa il pane perché ama farlo, ma perché qualcuno lo pagherà per farlo, perché a sua volta quel qualcuno ha bisogno di pane per sopravvivere. Il collante della società, quindi, è la necessità di tirare a campare. Ora, questa visione di Smith è stata un po’ smontata di recente e ci torneremo dopo, ma la sua impronta è rimasta.
Facciamo un salto di un secolo e mezzo, al 1956. L’economista Ludwig Von Mises, per il quale sono i prezzi a guidare le decisioni delle persone e quindi a permettere un calcolo razionale dell’economia, pubblica La mentalità anti-capitalista, un saggio dove cerca di capire la natura psicologica di rifiuto e lotta contro il sistema capitalistico. In uno dei primi capitoli, intitolato “Il risentimento verso le ambizioni frustrate”, Von Mises prova a descrivere perché il “fallimento” in un società che funziona secondo merito pesa così tanto:
La maggior critica verso la rigidità del capitalismo consiste nel fatto che modella ognuno di noi in accordo con il suo contributo al benessere dei suoi concittadini. La modulazione del principio ad ognuno in accordo con i suoi risultati, non permette a nessuno scuse per le sue mancanze. Ognuno sa molto bene dell’esistenza di persone come lui che hanno avuto successo dove lui ha fallito. Come sa esserci tra i tanti invidiati persone che si sono fatte da sole iniziando dallo stesso punto da dove è partito lui.
Per risollevarsi dall’accettazione del fallimento, quindi, la persona disprezza il “selvaggio individualismo di chi ce l’ha fatta” e si consola dicendo che ha preferito essere più nobile, non partecipare alla grande scalata. Secondo questa visione il socialismo sarebbe la vendetta moralista di chi, dietro alle pretese di un bene comune, vuole solo eliminare una “sana” competizione che, misurandosi sulla qualità, dovrebbe portare un’inevitabile progresso.
Una decina di anni dopo, nel 1966, esce il saggio che meglio definisce il - per citare il Foglio, che si impegna sempre davvero tanto a stupirmi - “potere distruttivo dell’egualitarismo”: Invidia e società del sociologo austriaco Helmut Shoeck. Nel libro, Shoeck nota che l’invidia - ne ho scritto un po’ di tempo fa sempre su questi schermi - è parte della natura umana: attraversa civiltà, culture, sistemi economici e sociali. Non è legata a uno specifico periodo storico, a una religione o al benessere di una popolazione. Le storie sull’invidia fanno parte di una memoria culturale che va molto indietro e di solito spiegano una cosa molto semplice: l’invidia, portata al suo estremo, è distruzione. Dell’altro, del suo benessere, della sua felicità. Fino all’800 queste storie erano riuscite a “tenere sotto controllo” le pulsioni dell’invidia ma, con la nascita della coscienza di classe, per Shoeck l’invidia si trasforma in eugualitarismo, cioè l’idea che i beni debbano essere ridistribuiti equamente (ho anche letto un’entusiastica recensione del Giornale che, in questo caso, non mi sorprende affatto). In parole povere, per Shoeck il socialismo è l’ideologia di chi non ha saputo gestire la propria invidia personale.
Questa eredità è stata raccolta, oggi, dal “se vuoi, puoi” e dalla retorica del merito: lavora sodo, fatti vedere, impegnati a conoscere le persone giuste e vedrai che riuscirai a raggiungere i tuoi grandi sogni, lavorativi e non. Da “la Società non esiste, esistono gli individui” di Tatcher a “Siete ancora, come sempre, dei poveri comunisti”, dal Ministero dell’Istruzione e del Merito al “Nobody seems to want to work these days” di Kim Kardashian, siamo immersi in messaggi che ci dicono che il lavoro ci definisce e ci salverà.
Tuttavia.
Viviamo in un periodo storico dove l’invidia - e questo l’ha capito pure chi scrive per il Giornale - è ai suoi massimi. Magari canalizzata male, magari non riconosciuta per quello che è, ma - per capirci - è uno dei fattori che permette ai social di esistere nella forma che hanno oggi. Non mi sembra, però, che tutta questa invidia abbia portato a chissà quale dittatura del welfare. Anzi, l’intera campagna contro il reddito di cittadinanza è stata impostata sul risentimento: “Se IO ho lavorato sodo per guadagnarmi da vivere, perché c’è chi deve avere un sostegno di base senza fare nulla?” Invece di pretendere che una misura assistenziale di base permettesse di migliorare le condizioni lavorative di tutti, la stragrande maggioranza della base giovane e popolare dell’attuale Governo ha deciso che se loro non potevano avere accesso a quella misura, nessuno doveva.
A fronte di tutta questa invidia, le diseguaglianze economiche non sono mai state così grandi e la vera base fiscale italiana è formata dalla classe media (cioè chi ha un reddito sopra i 35 mila euro all’anno) e, come si diceva qualche Invidiosa fa, chi nasce in una famiglia povera ha meno probabilità rispetto al passato di accedere a quella “mobilità sociale” tanto cara a Von Mises e Shoeck. E in una società dove la diseguaglianza cresce, dove mettiamo la linea di partenza uguale per tutti che il concetto di merito presuppone? Possiamo limitarci a dire che, siccome respiriamo e ogni tanto abbiamo il mal di testa, abbiamo tutti le stesse possibilità? Beh, la risposta sta in questo articolo di Forbes uscito ad aprile: quest’anno, tutti i miliardari della famosa lista under 30 hanno ereditato la loro ricchezza.
Ultimo ma non per ultimo. Da quando Shoeck ha scritto il suo saggio la vita di un sacco di persone è migliorata. Ma non l’ha fatto solo perché il capitalismo ha stimolato l’invenzione di macchine, farmaci, elettrodomestici e sistemi di comunicazione sempre migliori. La vita delle persone è megliorata perché hanno avuto la possibilità di andare in pensione, perché hanno avuto un sistema sanitario gratuito a cui rivolgersi per salvarsi la vita, perché sempre più persone hanno avuto accesso all’istruzione elementare prima, secondaria poi e universitaria pure. Anzi, ho un’ultima riflessione: ma davvero, nel 2024, il rapporto che abbiamo con la felicità può essere solo economico? Davvero l’affermazione della nostra vita si riduce a questo, tra tutte le sfaccettature che l’esistenza su questo pianeta può avere?
Ora, senza pensare di aver scoperto l’acqua calda, mi sembra evidente che delegittimare la giustizia sociale come “invidia” sia un giudizio parziale e miope rispetto alla direzione che ha preso il mondo. Serve solo a convalidare il privilegio di chi nel benessere ci vive già e non ha alcuna intenzione di condividerlo con chi “non se lo merita”. Ma quindi, per tornare al punto in cui si incontrano le due stanghette della X, cosa c’è in mezzo? Per quello che ho potuto vedere io, c’è il condividere lo spazio con altre persone. Torniamo al buon vecchio Smith e al lavoro fatto negli ultimi trent’anni da chi lo ha studiato su un altro suo libro, cioè la Teoria dei sentimenti morali, che si apre con questa frase qui:
“Per quanto egoista lo si possa supporre, l’uomo ha evidentemente nella sua natura alcuni principi che lo inducono a interessarsi alla sorte degli altri e che gli rendono necessaria la loro felicità”
Per Smith, questa felicità è basata sul self-love, che è diverso dal self-interest perché si basa sulla sympathy, cioè sull’approvazione delle nostre azioni viste da fuori. Per stare bene, in sostanza, abbiamo bisogno dell’approvazione da parte della società in cui viviamo. Partendo dall’idea della società come un’insieme di istituzioni, T. M. Scanlon ha trovato quattro ragioni fondamentali - e difficilmente derubricabili a “invidia” - per cui la diseguaglianza va combattuta. Questi quattro pilastri sono accomunati da un principio semplice: non è possibile chiedere alle persone di rispettare un patto sociale che le tratta in modo diverso sulla base della loro ricchezza.
L’ho fatta lunghissima oggi, ma vi lascio con un video: è la risposta del parlamentare spagnolo Gabriel Rufián alle parole di Javier Milei secondo cui la giustizia sociale è un’aberrazione.
Tutta Invidia - Uno spazio utile
Qui, di solito, parlo di qualcosa che ho invidiato di recente. Questa volta, però, vorrei usare lo spazio in modo un po’ differente: raccontare profili, organizzazioni e testate che parlano di Palestina in modo informato o stanno dando una mano sul campo. È una selezione fatta da me, ma se avete un nome da aggiungere scrivete nei commenti: aggiornerò la lista.
Chi ne parla con dati e fatti:
Cosimo Caridi: giornalista che, almeno una volta al giorno, riassume punti cruciali di quello che sta succedendo a Gaza;
Roberta Lippi: racconta le storie di chi sta cercando di scappare da Gaza e segue diverse raccolte fondi, oltre a spiegare molto bene cosa sta succedendo. Le visualizzazioni sul suo profilo sono state limitate da meta;
Rula Jebreal: giornalista e intellettuale di origini palestinesi, che dà un punto di vista più internazionale traducendo tutti i contenuti in italiano;
+972mag: per chi mastica bene l’inglese, questo magazine israeliano è una fonte imprescindibile nonché l’autore di alcune delle più potenti inchieste sulla guerra a Gaza negli ultimi mesi;
Motaz Azaiza: giornalista palestinese che ha raccontato ogni minuto dei primi mesi di invasione. È uscito dalla Striscia a causa delle numerosissime minacce che, purtroppo, si sono rivelate più concrete per colleghi e colleghe. Le visualizzazioni sul suo profilo sono state limitate da meta;
Belal Khaled: fotoreporter palestinese, sono suoi alcuni degli scatti più devastanti ed emblematici degli ultimi 8 mesi;
Bisan Owda: giornalista palestinese con un canale di broadcasting su IG molto attivo.
Chi sta lavorando sul campo:
UNRWA: l’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi. Dopo le accuse - mai provate - di collusione con Hamas, molti Paesi occidentali avevano sospeso i finanziamenti: hanno ripreso a donare nelle ultime settimane;
WeWorld Onlus: associazione presente da trent’anni a Gaza;
Watermelonsfriendit: un’associazione di volontari e volontarie che raccoglie le richieste di aiuto e le raccolte fondi di chi sta cercando di lasciare Gaza:
Gaza Freestyle Festival: una community che da anni parla di Palestina e che, insieme a Mutuo Soccorso Milano, sta portando avanti una raccolta fondi per la distribuzione di beni alimentari nella parte sud della Striscia.
Angela
P. S. Ringrazio Giovanni Nava per le illustrazioni e tutte le cose belle di Invidiosa.
© 2024 Angela Cannavò.
Le illustrazioni della newsletter sono di Giovanni Nava.
Se vuoi leggere i vecchi numeri di Invidiosa, trovi tutto in questa pagina.
Grazie aver dedicato un po’ di tempo a me e a questa newsletter. E visto che sei qui, abbiamo qualcosa da invidiarci?
Fammelo sapere con un cuore, un commento o parlando di questa newsletter con chi ti va.
Ti hanno inoltrato questa mail? Iscriviti a Invidiosa.
Io non ho mai capito, e giuro che a 33 anni ancora ci rifletto molto, se il "seisoloinvidiosaaa!!!" abbia ragion d'essere o no. Chi lo dice, ma anche chi se lo sente dire, che cosa se ne fa, di questa formula così abusata? Ripeto: non capisco. Ma questa newsletter prova a mettere un punto alla questione e apre nuovi scenari di riflessione, quindi grazie. Mi interrogherò a lungo su che cosa stia in mezzo a quel chiasmo.
Questa Invidiosa tocca un nervo scoperto, sappilo. Puntata molto bella. Brava 👏🏼