Questo è il nuovo episodio di Invidiosa, la newsletter sulle cose che fanno gli altri mentre io sto a guardare 👋
Un piccolo avviso: Invidiosa sarà in versione “estiva” fino a settembre. Non ci saranno interviste, gli editoriali saranno un po’ più corti e ne approfitterò per recuperare alcuni episodi usciti prima di arrivare su Substack.
A presto!
Qualche Invidiosa fa ho raccontato di uno dei veri motivi per cui sto ancora su Facebook, cioè il gruppo “Arredare case piccole”. Un nome, una promessa: un posto dove scambiarsi foto, consigli e dubbi su case rigorosamente sotto gli 80 m². Ora, io non sono capace di arredare nulla - chiedere alle mie ex coinquiline per conferma - e realisticamente vivrò in affitto finché non mi deciderò a lasciare Milano, quindi non homotivo di stare su “Arredare case piccole”. Il punto, però, è che sono ossessionata dalle case: quelle che posso sbirciare dal marciapiede, quelle vuote che potrebbero diventare mie su immobiliare.it, quelle giocattolo, quelle su The Sims, quelle finte come una moneta da 5 € che stanno dentro i cataloghi IKEA. Quando giro in città sembra che io stia cercando di sbirciare tra le siepi come una guardona, ma la verità è che voglio solo vedere come si vive in una casa che non è la mia. E ogni volta che faccio questo gioco finisco per chiedermi: “Quando arriverà il mio turno, di essere invidiata per una casa che possiedo?”
Ho sempre amato “le case”, ma credo che questo interesse sia diventato un’ossessione quando, a 19 anni, mi sono trasferita a Milano. Non era un periodo felicissimo: dovevo scrollarmi di dosso l’idea di aver fatto la scelta peggiore possibile tra tutte quelle sul piatto universitario e avevo bisogno di immaginare un futuro sensato, solido e concreto. E cosa c’è di più reale di una parete (mi fa sempre un po’ ridere il fatto che cemento in inglese si dica concrete) e di una luce accesa a confermare che c’è vita, lì dentro? Se potevo pensarmi dentro una casa, potevo immaginare una versione di me che riusciva a mantenersi da sola, e se riuscivo a mantenermi da sola avevo trovato un lavoro, e se avevo trovato un lavoro forse non avevo fatto una cazzata così grande scegliendo scegliendo Milano. Guardando dentro quelle case - case che non mi sarei potuta permettere nemmeno vincendo un Turista per sempre - mi sentivo un po’ più e un po’ meno disperata. Mi raccontavo dentro quelle stanze e, allo stesso tempo, sapevo che erano fuori dalla mia portata. Così “la casa” è diventata l’obiettivo e marchio del fallimento nello stesso momento, un mischione di paura e desiderio. E a modo suo è diventato anche il modo di rivendicare un diritto. Il diritto a una certezza dura come il mattone, a spazi miei, a poter bucare le pareti semplicemente perché mi va.
Nel tempo - sono passati 12 anni - la mia ossessione per le case è peggiorata. Mi sono trasferita 5 volte, ho avuto almeno 15 coinquiline e 3 coinquilini, sono passata dal “bunker” al piano terra a una council house a Londra e ho comprato 7 stampe che non ho mai avuto il coraggio di infilare dentro una cornice. Non ho mai veramente “arredato” nulla e mi sono sempre limitata a stare nelle case che abitavo con un grande senso di transitorietà. Perché in tutto questo periodo l’idea di un posto mio, di qualcosa che sarebbe rimasto sempre lì e sempre solido mi martellava il cervello. Ma più andavo avanti con queste riflessioni, più la congiuntura tremenda del periodo in cui viviamo mi allontanava dalla Casa (grazie Milano, grazie expo, grazie pandemia, grazie Putin).
Così ho iniziato a invidiare chi, specialmente alla mia età, ha già una casa sua. Ci sono tante amiche e tanti amici in questa categoria e vi chiedo scusa per questa confessione davvero poco privata, ma davvero non c’è nulla di personale in questo. Invidio la potenziale libertà che dà sapere che quella casa è tua, che ogni piccolo investimento e miglioria sono una forma di amore per sé. Invidio i soldi risparmiati, o comunque investiti su una cosa che sarà lì anche quando i rapporti più solidi crolleranno, quando ci sarà bisogno di un rifugio. Capisco bene la vostra felicità e la vorrei anche per me.
Tolta la mia situazione particolare, però, che l’Italia abbia un problema abitativo - condiviso con una buona fetta di Europa e con gli Stati Uniti - è un fatto. Il costo delle case, e degli affitti, continua a salire mentre gli stipendi non crescono (ma questa è un’anomalia tutta nostra). Il valore delle case aumenta perché la disponibilità rispetto alla domanda è troppo bassa, specialmente nelle grandi città. E meno case ci sono, più alto sarà il prezzo che le persone sono disposte a pagare per averne una, cosa che a sua volta farà aumentare i prezzi a cui queste case vengono affittate. Se si conta anche che 608 mila alloggi in Italia sono disponibili solo su Airbnb, la disponibilità di tetti per chi li cerca diminuisce. E che io non sia l’unica a desiderare un dignitoso spazio mio non lo dimostrano solo le sacrosante proteste di studenti e studentesse davanti al Politecnico prima e alla Sapienza poi, ma anche il boom di richieste che il prestito garantito CONSAP ha conosciuto con il Bonus Sostegni del Governo Draghi nel 2021.
Le soluzioni, però, ci sono: sono strutturali - leggi “complicate e lunghe” - ma ci sono. Come prima cosa, si può investire sull’edilizia residenziale pubblica e sociale: non solo costruendo, ma anche rendendo abitabili edifici sfitti perché in pessime condizioni. Si può e si deve recuperare il recuperabile senza togliere spazio a tutti quei pezzi di città - aree verdi, piazze, cortili, luoghi di scambio - che sono necessari a vivere bene. Si possono iniziare a regolare meglio gli affitti brevi, per evitare che si concentrino troppo in una zona o che superino una soglia “di pericolo”. Come racconta uno degli ultimi episodi di Il Mondo, il podcast quotidiano di Internazionale, gli occhi sono puntati sull’esperimento che Barcellona dice di voler portare avanti con gli affitti brevi, già attuato da New York con scarsissimo successo. Oppure si possono, lì dove la geografia lo permette, gestire meglio i collegamenti tra provincia, interland e città investendo su un trasporto pubblico efficiente e capillare che riduca il bisogno di prendere un automobile che aggiungerà traffico al traffico e qualche ruga in più al tuo bellissimo viso. In questo modo il tessuto cittadino sarà più grande senza necessariamente bisogno di altro cemento, costruzioni e cantieri. Okay, sono soluzioni poco pratiche sul breve termine - se ne conosci altre scrivile giù nei commenti, mi piacerebbe tantissimo leggerle - ma la sostenibilità di un sistema la si crea nel tempo.
In tutto ciò, paradosso dei paradossi, io sono già in una situazione invidiabile. Vivo in affitto in un monolocale adorabile da un anno e mezzo: c’è spazio per tutti i miei libri, posso chiedere a chi entra di togliersi le scarpe per mettere le ciabatte a forma di carlino e attorno a me ho più natura di quanta ne potessi immaginare. Qualcuno potrebbe dire che per Milano questo è il vero “Turista per sempre”. Nonostante questo, però, il senso di precarità non se n’è mai andato.
Chissà, forse la casa è la risposta sbagliata a una domanda giusta. O forse è il simbolo della frustrazione che provo verso errori che ho ereditato, un sistema che preferisce svuotare le città invece che renderle abitabili e la sensazione che una soluzione non arriverà a breve. L’unica cosa che so è chiunque, a fine giornata, si merita un rifugio.
Smontare il tabù: quattro chiacchiere con Francesco Contrafatto
In questa sezione parlo di invidia con una persona diversa ogni due settimane. Se vuoi dire qualcosa, hai in mente un tema o vuoi raccontare la tua versione dei fatti, scrivimi. Smontiamo insieme questo tabù.
Francesco Contrafatto è nato il 22 settembre 1993 nella ridente e solare Catania, madre professoressa e padre architetto. Da sempre amante dell’arte in tutte le sue declinazioni, sin da piccolo disegna tutto ciò che immagina e crescendo si appassiona alla street art, iniziando a sperimentare nel suo piccolo. Affascinato dal mondo dei Lego, non perde occasione per realizzarne qualcuno: ama comprenderne la logica e assemblare quei minuscoli pezzi, insignificanti visti singolarmente, ma capaci di dar vita a strutture e personaggi iconici se messi insieme. A 20 anni, dopo un breve periodo in uno studio di architettura e design di Milano, si iscrive alla facoltà di architettura di Catania. Alla fine del 2020 si laurea e si abilita alla professione di architetto. A gennaio 2021 inizia a lavorare in due studi dove apprende le basi e inizia un percorso di formazione sul campo, che continua tutt’ora, augurandosi di diventare un giorno architetto con la A maiuscola.
Tu per lavoro progetti anche le case delle persone: le senti discutere delle loro aspettative, dei loro desideri, delle cose che temono o delle persone che non vorrebbero mai diventare. Ma una casa può davvero contenere tutto questo? E se sì, come?
Questa domanda mi fa venire subito in mente un’analogia suggerita qualche tempo fa da un vecchio saggio (cioèmio padre): “l’architetto è come un sarto e la casa è il suo vestito, quel vestito da realizzare su misura per accontentare tutte le richieste della cliente perché potrebbe essere il vestito della vita che nel tempo avrà sicuramente bisogno di qualche aggiustamento, magari che si allarghi o si stringa ma sempre capace di farti sentire a tuo agio e al sicura, tanto da farti pensare che quel vestito lo indosseresti ogni giorno.”
Allo stesso modo, la casa ha una sua integrità, la sua qualità spaziale ma si evolve insieme alle esigenze delle persone seguendo il corso della loro vita, facendole sentire accolte e sicure in ogni momento.
Da piccoli non possiamo comprenderne l’importanza, perché ogni spazio è perfetto per giocare e crescere pian piano.
Poi la nostra stanza diventa il nostro regno, il nostro rifugio, e iniziamo a capire quanto sia importante avere uno spazio proprio in cui potersi esprimere.
Diventando adulti, spesso si sviluppa il desiderio di volere un’intera casa per noi, uno spazio che ci rappresenti in ogni suo ambiente, e per ottenere questo risultato bisogna avere consapevolezza di ciò che si è, di cosa si desidera e dei sacrifici che tutto ciò comporta.
Bisogna essere consapevoli che potremmo vivere la casa anche in modo diverso, con ritmi diversi, emozioni e sensazioni diverse. La casa come grande contenitore, di oggetti ma anche di esperienze e di momenti, all’interno del quale mettiamo noi stessi e non solo. Perché cambia, muta negli spazi e nei contenuti così come facciamo noi che l’abitiamo.
Quindi, sì! La casa può contenere tutto questo e molto altro ancora, è uno spazio fatto da noi e per noi, quasi del tutto inesauribile.
Per la nostra generazione è sempre più difficile comprare casa: pensi che questo cambierà il nostro rapporto con l’abitazione? Provo a spiegarmi meglio: sarà più semplice adattarsi a soluzioni provvisorie - e magari anche un po’ creative - o si cercherà comunque di trovare una casa su cui investire soldi, tempo ed energia?
Di recente ho affrontato proprio questo tipo di dilemma: ho avuto la possibilità di dividere e ristrutturare la casa in cui sono cresciuto, plasmandola (come dicevamo prima) secondo le mie esigenze. Inizialmente mi sono chiesto: “ma è proprio quello che voglio? Voglio mettere radici qui? E se sì, ne sarò all’altezza?”
Dopo innumerevoli ragionamenti alla fine ho scelto di cogliere la possibilità e costruirmi il mio spazio, perché fortunatamente viviamo in un periodo che, per quanti difetti possa avere, ha dato alle generazioni più giovani la capacità di adattarsi e reinventarsi. Le case seguono questa contemporaneità: oggi un’abitazione può trovarsi in un punto con una specifica funzione (abitazione personale) e un domani può essere altro, può essere affittata, venduta, nuovamente trasformata. E quindi, perché non farle vivere tutti questi cambiamenti con me?
Nonostante le grandissime difficoltà della nostra generazione per poter comprare casa io credo che tenderemo sempre a farlo, tenderemo sempre a cercare un luogo in cui stabilirci, in cui poter tornare e dire “questa è casa mia”; un posto per il quale saremo disposti a investire perché, in fondo, tutti vogliamo sentirci a casa.
È chiaro che questa cosa non valga per chiunque: sicuramente questo non sarà un desiderio condiviso da ogni persona della mia generazione, perché le circostanze della vita ci portano a fare scelte diverse. Incontro quotidianamenti miei coetanei che desiderano a tutti i costi ottenere uno spazio proprio e che con molti sacrifici e rinunce stanno investendo per raggiungere questo obiettivo. Altri, invece, nonostante i sacrifici, per un po’ dovranno dare priorità a esigenze diverse e vivere in affitto o ancora con i propri genitori. E accanto a questi ci sono tante altre persone che, nonostante abbiano la possibilità di farlo, non sentono la necessità di avere casa propria.
Rispetto alle generazioni passate sono sicuramente cambiate le dinamiche, i rapporti e la concezione stessa dell’abitazione: siamo più predisposti al cambiamento, ad accettare delle soluzioni provvisorie o temporanee anche per necessità, ma sono profondamente convinto tenderemo sempre a cercare un posto su cui investire soldi, tempo ed energia.
Domanda di rito per chi passa da Invidiosa: c’è qualcosa - può essere una persona, un progetto o uno stato d’animo - che invidi?
L’invidia è sicuramente uno dei motivi che mi spinge a studiare, aggiornarmi, osservare e crescere ogni giorno. Quando parlo di invidia, la intendo nell’accezione più pura e limpida e non in quella “cattiva”, che non nascondo comunque di aver provato. È molto complicato riuscire a non farsi schiacciare da questi pensieri invidioasi e trasformarli in altro, ma in questo il mio carattere mi aiuta tanto. Osservo chi è più avanti di me e invidiandolo penso “Ci posso arrivare anche io”, guardo una soluzione progettuale e invidio il fatto di non averla sviluppata io così penso “Voglio avere anche io delle idee così”. Insomma, l’invidia è anche essere uno stimolo continuo, parte delle benzina che mi fa muovere in avanti.
Tutta Invidia - Oh shit, here we go again
Che newsletter sull’invidia sarebbe, senza qualcosa che mi ha fatto rosicare?
Hai presente quelle attività di cui non sai nulla - okay non proprio zero, ma hai solo una vaga infarinatura - ma ti ispirano abbastanza da dire “quasi quasi lo faccio”? Ecco, io ho quel rapporto lì con la stand up comedy: la seguo pochissimo, non ho mai visto uno spettacolo dal vivo e non conosco nulla dei “mostri sacri” (anglofoni, ovviamente). Però ogni tanto ho il ghiribizzo di dire: “Sai cosa? Adesso vado a una serata open mic e cerco di elaborare tutti i miei traumi con della gente sconosciuta sperando di farla ridere”. Ecco, qualche sera fa questo solletico mi è completamente passato perché ho visto Nanette, uno spettacolo che la comica australiana Hannah Gadsby ha scritto e portato su Netflix nel 2018. Quel modo di stare sul palco, quella scrittura, l’ingegno che ci vuole per costruire la tensione e smontarla è una cosa così rara che pure un’ignorante come me ha saputo riconoscerla. Ma non è solo quello: è il messaggio di amore e dolore che Gadsby decide di portare su quel palco a rendere Nanette una cosa unica. Ancora più necessaria perché sembra che dal 2018 non sia cambiato nulla (o forse che certe cose siano pure peggiorate). Nanette non fa solo ridere, Nanette è un pugno sul naso. Ma se hai un briciolo di rabbia in corpo - o anche di paura - per questi anni senza senso, forse vale la pena farsi colpire e provare a rialzarsi.
P. S. Ringrazio Giovanni Nava per le illustrazioni e tutte le cose belle di Invidiosa.
© 2024 Angela Cannavò.
Le illustrazioni della newsletter sono di Giovanni Nava.
Se vuoi leggere i vecchi numeri di Invidiosa, trovi tutto in questa pagina.
Grazie aver dedicato un po’ di tempo a me e a questa newsletter. E visto che sei qui, abbiamo qualcosa da invidiarci?
Fammelo sapere con un cuore, un commento o parlando di questa newsletter con chi ti va.
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Allora non so bene da dove iniziare, ma parto dalla fine: ma sai che penso la stessa identica cosa della stand up?? Io sono certa che nella prossima vita sarò una comica, ma non escludo che possa accadere anche in questa. In questi anni ne ho guardata molta moltissima, inglese (Nanette devo recuperarlo però, anche se ho visto gli altri suoi) e americana, e anzi ho da qualche settimana in mente un progettino disegnato, ma mi taccio che è ancora tutto embrionale. Passo alla casa: ho questa invidia da moltissimi anni, io e il mio compagno da quando ci conosciamo (2010) guardiamo annunci ovunque: online, nelle agenzie, nei flyer. Penso che ci potremo permettere una casa solo vincendo al Superenalotto. Viviamo quindi in affitto, nella stessa casa in cui io abito dal 2006, e ci abbiamo speso tantissimi soldi. A marzo abbiamo rischiato di dovercene andare e io ho vissuto settimane di ansia e terrore perché vivere nella città del giubileo è uno schifo. Le cose si sono sistemate ma ecco: invidio chi ha una casa sua, che si sta pagando con il mutuo, che ha pagato in contanti, che ha ereditato. Invidio chi può tornare a casa pensando che se, se ne andrà, sarà perché lo ha deciso. Grazie Angela per la riflessione (e scusa per il lenzuolo)
Per me la casa, anzi le case, sono sempre state un'ossessione. Mi sono sempre immaginata a guardarle da fuori, nel buio, e per anni il mio screensaver del PC era una casetta nella notte con solo le finestre a emanare luce. Non mi sono mai soffermata più di tanto a pensare quale fosse il motivo. Poi nel 2022 tra mille sacrifici e non pochi "aiuti dal pubblico" con quello che adesso è mio marito abbiamo comprato casa. Non so nemmeno descrivere il profondo senso di benessere che mi da stare qui dentro, nella mia tana. E' una roba viscerale, che ti si attacca addosso e non si scolla più, ma in positivo. Subisco ancora l'invidia immobiliare (mica mi sono comprata Versailles...) ma ad oggi so che c'è un posto dove ne provo meno.