Ciao, come stai? 👋 Questo è il nuovo episodio di Invidiosa, la newsletter dove parlo delle cose che fanno gli altri mentre io sto a guardare.
Qualche Invidiosa fa avevo scritto una piccola riflessione su come mi fa sentire Il Decennio Breve, il podcast che prova a capire come mai abbiamo così tanta nostalgia del periodo 2001-2011 (e che sto continuando ad ascoltare). Ne riporto un pezzo qui per chi ha iniziato a seguire Invidiosa dopo l’approdo su Substack.
Nel frattempo, per ricordarmeli, sono andata sulla loro pagina Instagram e mi sono ritrovata a scrollare per ore. Come aprire un album di famiglia. Non ti dico la nostalgia, la sensazione di casa. Sono andata fino in fondo perché volevo vedere tutti i post, svegliare ogni faccia dell’adolescenza. Così ho scoperto che mi manca tutto, dai lucidalabbra a Berlusconi che fa le corna nelle foto. Mi è sembrato tutto più desiderabile di pandemie, guerre e genocidi in live stream. Adesso so come sarebbe andata a finire, so che saremmo sopravvissuti. So che opinione aveva senso avere, so di quanta energia ero capace. Mi sono sentita così invidiosa della persona che ero, dell’inconsapevolezza di anni colorati e rumorosi. Ero invidiosa della mia capacità di assorbire come una spugna, quando adesso mi sembra un pezzo di cerata. Mi manca scoprire cose nuove, e così posso solo farmi stupire dal vecchio.
Insomma, la mia non è solo una normalissima e comprensibile nostalgia per l’adolescenza - che ha avuto i suoi ovvi alti e bassi -, ma è realizzare che in quel periodo la mia vita mi assomigliava di più di quanto non abbia mai fatto dopo. Più mi sono allontanata dal liceo, più difficile è stato definire un’identità. È come se, all’inizio dell’università, avessi investito così tanta energia per sentirmi a mio agio in un mondo diverso da non averne più per mantenere compatto quello che avevo prima. Si è rotta la cucitura e l’imbottitura s’è sparsa per strada. Mi sono arricchita un sacco, certo, ma è stato tanto e troppo in fretta per riuscire a dargli una forma. Da adolescente mi sentivo un coltello caldo che taglia il burro; dopo, tutta quell’energia lì è finita a gestire stimoli nuovi e una nuova indipendenza. Hai presente “Caterina va in città”? È un film di Paolo Virzì (credo il mio preferito) dove la quindicenne Caterina viene catapultata in una scuola di Roma dalla provincia, e nel vortice delle nuove conoscenze - dalla sinistra intellettuale un po’ radical chic alla destra berlusconiana degli anni “olgettini” - indossa tutte le identità possibili fino a riacquistare la sua. Ecco, io sono ancora lì a provare le cose per capire cosa mi sento meglio addosso.
Non è chissà quale tragedia, per carità. Guardandomi indietro, però, mi manca davvero tanto un certo tipo di persona che sono stata. O forse a quella Angela invidio la dimensione più gestibile delle cose. È inevitabile, andando avanti, che le responsabilità abbiano più conseguenze, che un brutto voto non possa mai sostituire un grosso errore sul lavoro e che un certo pezzo della famiglia avrà sempre meno energie e risorse per starti accanto. E non credo di essere l’unica, almeno nella mia generazione, a sentirsi così. E forse è anche per questo che chi sta nei suoi trent’anni adesso cerca una traccia ancora adolescenziale nella vita, qualcosa che rimandi la presa di coscienza definitiva. E anche quando ci prendiamo degli impegni “adulti”, se ci sposiamo, mettiamo su famiglia e mandiamo avanti le nostre attività, rimaniamo con le Vans ai piedi e la certezza della precarietà. Parliamoci chiaro: non è che altre generazioni invidino meno il loro passato. Ci sono correnti di pensiero politico che rivendicano i “bei tempi andati” come un valore, e il successo estivo del generale Vannacci ne è una prova. Sarebbe egoista non riconoscere, però, che vivere in questi tempi vuol dire anche scontrarsi con una promessa tradita: la risposta di chi ha la mia età è semplicemente quella di cercare un “cronorifugio” nella vita di ogni giorno - rubo questa espressione a Georgi Gospodinov, al quale mi ha fatto pensare Alessia Ragno (il suo profilo è uno dei preferiti su Instagram) proprio negli scorsi giorni. Anzi, proprio in “Cronorifugio” Gospodinov racconta di come una “clinica” per curare chi ha perso la memoria diventi il luogo più attraente per chi si ricorda tutto della propria storia. Il punto è: c’è una soluzione all’invidia del proprio passato? In alcuni momenti credo di no, ma non mi dispero: è più facile mettermi a cercare se so esattamente cosa ho perso.
Smontare il tabù: quattro chiacchiere con Giovanni Nava
In questa sezione parlo di invidia con una persona diversa ogni due settimane. Se vuoi dire qualcosa, hai in mente un tema o vuoi raccontare la tua versione dei fatti, scrivimi. Smontiamo insieme questo tabù.
L’ospite di oggi è Giovanni Nava: per molto tempo ha fatto l’art director in diverse agenzie di pubblicità, per poi cambiare e seguire l’impulso di creare immagini in modo diverso. Da un paio d’anni si occupa di giochi di ruolo come autore, illustratore e direttore artistico: l’obiettivo è quello di esprimersi come meccanismo opposto al deprimersi. Le illustrazioni di Invidiosa sono sue.
Tu ti “autoinvidi”? E come se ne esce, se se ne esce?
Quando si guarda al passato è difficile non archiviare tutto come “nostalgia”. L’invidia, sentimento apparentemente meno romantico, viene spesso derubricata come un vezzo del presente; non credo sia così.
La cosa che più invidio alle persone è la capacità di identificarsi, nel senso specifico di darsi un’identità e perseguirla, declinarla, con la conseguente fiducia nelle proprie capacità. Questa condizione rende prolifici, spregiudicati, coerenti o almeno il mio invidioso osservare questi fortunati e definitissimi individui mi restituisce un’idea del genere. A ogni modo, si tratta di un arsenale di inclinazioni proattive che accende un faro su tutte le mie esitazioni, i miei dubbi paralizzanti, la mia sfiducia. Ed è qui che si genera il paradosso che mi porta a invidiare il me stesso del passato: se con il trascorrere del tempo, nel fantomatico passaggio all’età adulta, l’essere (o sentirsi) indefiniti è percepito come un peccato mortale, un handicap identitario o una debolezza, quando si è più piccoli è un valore, ci fa sentire poliedrici, meno conformi, in un processo di sintonizzazione alla ricerca di qualcosa di speciale e identificante che prima o poi dovrà accadere. Cosa sarai da grande lo deciderai poi, nel mentre ti è concesso di improvvisare, di sbagliare, di recitare la parte che vuoi con “tutta la vita davanti”. Insomma, c’è quella fiducia di cui parlavo poco fa: fiducia in sé stessi e, in qualche modo, nel futuro. Mi rendo conto non sia sempre così, ma mi permetto di generalizzare per raccontare i viaggi nel tempo della mia invidia.
Ho 37 anni; quando mi trovo a ripensare a una versione più giovane e disinvolta di me, dei tempi universitari (poco prima o poco dopo), trovo un individuo indubitabilmente più acerbo, ma anche più fiducioso, più sfrontato, armato di un coraggio espressivo un po’ ingenuo, spesso non autentico, ma pur sempre vitale. Il foglio bianco mi faceva decisamente meno paura all’epoca, mentre oggi è il più delle volte immobilizzante: nella società della performance e nell’età della definizione, ogni linea tracciata espone e ogni esposizione è sale sulle fragilità, uno spotlight che allunga le ombre dei timori o forse, semplicemente, una piccola decisione.
L’associazione al foglio bianco non è casuale: occupandomi di creatività per lavoro mi sono reso conto che cercare di temperare l’espressione delle proprie idee e intuizioni in modo più maturo, controllato, corretto, equivale in un certo senso ad addomesticarsi; questo mi porta a un eccesso di ragionamento che sfocia il più delle volte in scetticismo, cinismo e quindi in auto-censura.
Cito Wikipedia: “L'effetto Dunning-Kruger (EDK) è una distorsione cognitiva nella quale individui poco esperti e poco competenti in un campo tendono a sovrastimare la propria preparazione giudicandola, a torto, superiore alla media.” Che sia questo il motivo o sia invece una grande fiducia nei propri mezzi, oggi come oggi invidio con tutto me stesso chi fin da giovane non ha paura di esprimersi, di cercare di definirsi, di fare. Quei maledetti che a vent’anni sembrano essersi già capiti e che procedono e si esprimono senza sosta, con il vento del tempo a favore. Io non sono mai stato così definito, anzi, ma in questo sentimento, che ha ben altri contorni rispetto alla semplice nostalgia, invidio anche me stesso e quel coraggio meravigliosamente idiota che mi sono perso per strada.
La cosa migliore che posso fare ogni giorno è cercare di attingere anche a quell’incoscienza, a quella naïveté, e capire come mescolarla a ciò che nel frattempo sono diventato. Forse non è una soluzione, ma può rivelarsi un utile defibrillatore.
Tutta Invidia - Estetica dell’errore
Che newsletter sull’invidia sarebbe, senza qualcosa che mi ha fatto rosicare?
Di tutte le cose che l’adolescenza mi ha lasciato c’è una simpatica relazione tossica con gli errori. Ne faccio tantissimi - soprattutto perché mi dimentico di indossare gli occhiali - ma degli errori non parlo MAI con serenità: li sotterro sotto il più infimo dei tappeti, chiedo scusa e spero che nessuno abbia infilato quell’episodio nella cartella “Per sempre” della propria memoria. Dentro “Confidenza” di Domenico Starnone - libro strano, stranissimo - ho trovato la migliore definizione di questa angoscia verso gli sbagli:
Ero furioso con loro per come sapevano essere adeguati al ruolo e con me per come mi ero svelato inadeguato. No, quindi, no, non tolleravo l’errore, non tolleravo le conseguenze dell’errore, non tolleravo di dovermi giustificare, non tolleravo niente che mi mettesse di fronte al fatto che non ero capace di essere perfetto, non lo sarei mai stato.
Insomma, non è difficile capire perché invidio così tanto le persone che sanno gestire gli sbagli con calma zen e, magari, da quegli scivoloni sanno anche costruire qualcosa di bello o utile. Ancora di più invidio quegli errori che per pura serendipità diventano “le più importanti scoperte di sempre”, perché quello che le rende tali è comunque la presenza di una persona abbastanza lungimirante da realizzare che l’errore ha aperto una porta verso qualcosa.
A questo discorso sugli errori penso da quando ho scoperto l’esistenza di un libro che prova a raccogliere quelli più sensazionalin: “Storie di errori memorabili” di Piero Martin, professore di fisica della materia all’Università di Padova. Martin rivendica l’errore come condizione necessaria per il progresso, un pezzo indispensabile del metodo scientifico. È una prospettiva che mi intriga, visto che non riesco a scrollarmi di dosso che uno sbaglio sia sempre e necessariamente una tragedia.
Angela
P. S. Qui di solito ringrazio Giovanni per le illustraizoni, ma questa volta devo anche dirgli grazie per il suo tempo e i suoi pensieri.
© 2024 Angela Cannavò.
Le illustrazioni della newsletter sono di Giovanni Nava.
Se vuoi leggere i vecchi numeri di Invidiosa, trovi tutto in questa pagina.
Grazie aver dedicato un po’ di tempo a me e a questa newsletter. Insieme a te la leggono 120 belle persone.
E noi due, abbiamo qualcosa da invidiarci?
Fammelo sapere con un cuore, un commento o parlando di questa newsletter con chi ti va.
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Appena ho letto degli errori, ho pensato subito alla pagina di un libro che ho letto la scorsa estate: Scrittura Ribelle di Ella Marciello.
Io invidio tanto lei, la sua bravura nell’ accettare l’errore e basta ☺️
“Vorrei che ci fosse un po' più di spazio per permettere alle persone di perdere e fallire, senza dover per forza trasformare quel fallimento in una lezione da cui dover imparare…Perché quando ci viene costantemente raccontato che il rifiuto e il fallimento sono solo trampolini di lancio che ci condurranno a cose migliori poi non siamo in grado di gestire il rifiuto che arriva e semplicemente sta li. Arriva per non portare da nessuna parte. Arriva e diventa dolore e quel dolore non ha sbocchi, non è funzionale, non insegna niente e non ti avvicina alla persona o all'artista che aneli essere. Perché tante, troppe volte, quando si chiude una porta si chiude e basta e non succede nient altro. E va bene soffrire. Dovremmo iniziare a fare cultura sul fatto che le persone possono semplicemente soffrire senza che quel dolore sia l'ingresso per nient'altro che un lungo periodo di merda.
Le porte si chiudono continuamente.
Possiamo pure starcene li di fronte e fissarle per tutto il tempo che ci sembra necessario.
Da quel vuoto privo di significato costruire un senso.
Oppure no."
Invidio il tempo che avevo, il tanto, tantissimo tempo che era solo per me e non me ne rendevo conto. Invidio la spensieratezza, le possibilità infinite che avevo negli occhi con cui guardavo il mondo, le prime volte, le vigilie delle prime volte. Che invidia tenera, questa!