Ciao ❤️ Questo è il nuovo episodio di Invidiosa, la newsletter che prova a parlare di invidia in un mondo che ne prova tantissima ma fa finta di niente. Ogni tanto.
Ho passato la prima sera del 2025 a bere una tisana nella taverna di una ragazza che avevo conosciuto solo un giorno prima. Mi ero aggiunta a un gruppo di amiche cresciute insieme e, com’è normale il primo giorno dell’anno, ciacolavamo di propositi di bilanci. Il 2024 ne stava uscendo piuttosto male, a livello di voti. 6.5, 5, un timido 7: la media, insomma, era una sufficienza. Una di loro, non arrendendosi a questo voto così penoso, ha detto: “Secondo me tendiamo a ricordarci meglio le cose che non hanno funzionato rispetto ai momenti in cui siamo state felici”, e ha tirato fuori un reel salvato su Instagram: una ragazza raccontava di aver scritto i bei momenti del 2024 su minuscoli bigliettini da infilare nel più classico dei salvadanai. Il 31 dicembre avrebbe aperto il maialino per fare un bilancio migliore - o almeno, più accurato - dell’anno appena passato.
Già, più accurato. Perché un fondo di verità sulla storia dei “brutti ricordi” c’è: gli eventi negativi, preoccupanti o ad alto potenziale di indignazione si prendono un sacco di spazio nella nostra testa. Lo abbiamo capito bene con la pandemia e il doomscrolling, ma di fatto il nostro cervello è programmato per concentrarsi sulle brutte notizie. Si chiama negativity bias e serve a tenerci sempre all’erta, a evitare che si diventi pacifici erbivori perché il mondo è, nonostante il nostro impegno, ancora una cacca. Insomma, diamo per scontato che eventi positivi o neutri avvengano, mentre “i problemi” fanno scattare un allarme che è molto difficile ignorare. Così, mentre riflettevo sul mio voto, ho realizzato che il mio negativity bias sul 2024 è stato così grande da farmi dimenticare una cosa fondamentale: Invidiosa ha fatto un anno, un anno in cui non ho smesso di scrivere e in cui non ho mandato alle ortiche anche questo progetto. So che, insieme alla newsletter, nel mio 2024 ci sono state cose stupende e significative, ma le ho cancellate o rese minuscole davanti alle rosicate, i problemi, il dolore e le delusioni.
Anche perché, e ne ho già parlato, mi sembra di perdere sempre. Sempre.
A quel punto non ho potuto fare a meno di chiedermi: ma non è che funziona così anche con l’invidia? Non è che tendo a concentrarmi più su quello che mi manca, invece di essere felice per quello che ho? O, meglio ancora, non è che tendo a ingigantire quello che mi manca e a minimizzare quello che ho?
Godo di buona salute, così come stanno abbastanza bene le persone a cui voglio bene e che ho la fortuna di avere nella mia vita. Sono fiera delle mie amicizie, dei successi delle persone che scelgo e che mi scelgono. Faccio un lavoro che mi piace - accolgo con serenità i momenti di noia o disamore, capitano nella routine -, vivo in una città che amo nonostante le sue contraddizioni e sono abbastanza padrona delle mie scelte. Ho avuto qualche signor sgambetto dalla vita, ma ho una bella vita.
Però se scrivo questa newsletter un motivo c’è. Una sorta di fame, la sensazione che c’è qualcosa che mi sfugga, che stia vivendo la mia vita alla metà delle suo potenziale. Hai presente il supplizio di Tantalo? È il mito greco che racconta di questo re, condannato nell’aldilà a rimanere eternamente affamato e assetato nonostante fosse circondato da cibo e acqua, che si ritiravano appena lui cercava di prenderli. Ecco, io mi sento Tantalo ma con la pancia piena. Nonostante io riesca a mangiare almeno tre volte al giorno, ho sempre un buco nello stomaco.
La vera condanna di chi invidia, allora, è quella a una perenne insoddisfazione? Alla certezza di non sentirsi mai “abbastanza” e cercare questo valore fuori, in tutte le scelte che non abbiamo fatto? Forse. Oppure, non è che l’invidia è solo un sintomo di una generale sensazione di insufficienza che affligge chiunque in modo trasversale?
A inizio gennaio, Demi Moore ha ritirato il suo primo premio come attrice a 62 anni. Nel discorso di ringraziamento ha parlato di essere stata definita una “popcorn actress”, una che poteva fare film da milioni di dollari ma non avrebbe mai e poi mai potuto vincere un premio riconosciuto alle colleghe meno pop, meno commerciali, più “artiste”. Lei ha creduto a questo limite, autoconvincendosi di aver fatto tutto quello che poteva fare perché “io sono così”. Ha creduto di appartenere alla parte più caciarona e marchettara del cinema, di non essere abbastanza per fare altro e soprattutto per farlo dopo i 50 anni. Poi è arrivato lo script di The Substance, il successo del film e il premio. “Una donna mi ha detto ‘Ricordati che non sarai mai abbastanza, mai che puoi riconoscere il tuo vero valore solo se smetti di agitare un righello’. Così oggi festeggio questo premio come un segno della mia completezza, dell’amore che mi manda avanti e per il fortuna di fare una cosa che amo e che mi ricorda che io appartengo a questo mondo”. “A questo mondo” è una parte che ho inserito io perché spiega un po’ meglio il senso del verbo “to belong”. Ora, io non ho modo di sapere se Demi Moore ha provato invidia verso le colleghe meno “popcorn”, ma ha desiderato una cosa che considerava fuori dalla sua portata e che per questo si è sentita incompleta. L’idea che aveva di se stessa non combaciava con quella che, di fatto, era lei.
A proposito della questione “inadeguatezza”, un altro piccolo pezzo di cultura pop che mi ronza nelle orecchie da quest’estate è brat di Charli XCX. Perché al di là di tutto il rumore, la brat summer, le discussioni sull’estetica arraffazzonata ma chiaramente curatissima, le canzoni del disco restituiscono un ritratto della “ragazza brat” che è estremamente complesso e affascinante: una donna che rimbalza tra il sentirsi il centro del mondo e il chiedersi perché si sente così fuori posto, così insufficiente, così sbagliata, così invidiosa.
Dentro Sympathy is knife, Charli XCX canta:
I don't wanna share this space
I don't wanna force a smile
This one girl taps my insecurities
Don't know if it's real or if I'm spiraling
[...]
'Cause I couldn't even be her if I tried
I'm opposite, I'm on the other side
I feel all these feelings I can't control
Oh no, don't know why
All this sympathy is just a knife
Why I can't even grit my teeth and lie?
I feel all these feelings I can't control
Oh no, don't know”
Ora, lungi da me imputare a Charli XCX dell’insicurezza. Credo però sia significativo che un album che è stato così discusso anche per aver restituito un’immagine femminile molto lontana dalla “perfezione” a là Taylor Swift contenga una canzone - anzi, più canzoni - dove a farla da padrone siano i dubbi, le incertezze, lo spaesamento. Dentro questa canzone ci sono una rabbia e una frustrazione che io riesco a fare mie senza problemi, perché mi sento così quasi ogni volta che apro Instagram. Sia chiaro, né Demi Moore né Charlie XCX hanno bisogno della mia empatia. Vedere, però, che l’ansia da paragone e una più diffusa sensazione di incompletezza sono trasversali mi fa leggermente sentire meno sola. Dopotutto, il confronto con “l’altro da sé” è naturale esperienza umana all’interno di una società: pensare che il successo cancelli anche i suoi aspetti più spigolosi è un po’ ingenuo. Questo vuol dire, però, che non c’è un vero “rimedio” all’invidia?
Ci sono due possibili risposte. Come scriveva il dietologo e psicoterapeuta in formazione Edoardo Mocini nelle sue stories di qualche settimana fa - che purtroppo non sono state salvate - nel caso di Demi Moore potrebbe trattarsi di una dinamica in-group VS out-group. Queste categorie, che si possono tradurre con “dentro e fuori dal gruppo” sono state rese popolari dallo psicologo Henri Tajfel nei suoi studi sulla teoria dell’identità sociale, in base alla quale le persone tendono a “favorire” le persone all’interno del gruppo a cui sentono di appartenere. Questo succede non solo perché “il gruppo” porta benefici materiali ma anche perché è legato all’identità del singolo, al senso di sé e alla propria autostima. Moore, come ha detto nel suo stesso discorso, ha desiderato quel premio perché aveva bisogno di “appartenere” a un mondo vicinissimo ma, per lei, inaccessibile. L’insoddisfazione, quindi, potrebbe arrivare da lì: il gruppo con cui ti identifichi o vorresti identificarti mette un pedaggio, e tu devi trovare il modo di pagarlo per pacificare la tua identità. Quando non ci si riesce, l’invidia diventa anche un meccanismo di compensazione.
L’altra possibile risposta è il “ciclo della disperazione” di cui (alla quale do il benvenuto qui su Substack da fedele prociona) parlava nelle sue stories qualche settimana fa. Il discorso è molto lungo ed è giusto leggerlo dalla fonte originaria, ma quello che mi ha colpito molto sono state le reazioni di alcune persone davanti ai sacrifici che Fumo ha fatto nel 2024 per raggiungere i risultati che desiderava: si sono sentite demoralizzate, angosciate, risentite e convinte di non essere abbastanza proprio perché non disposte a fare quei sacrifici. Il ciclo della disperazione, appunto: vedo persone fare cose che vorrei fare anche io, realizzo la sbatta, il sacrificio, la tempestività o i soldi (essì, anche loro) che ci vogliono, mi scoraggio e penso di non avere quello che serve per sopravvivere con queste regole del gioco. E più stiamo sui social, più storie del genere incrociamo, più sembra difficile sfuggire alla spirale di abbrutimento e invidia profonda. Con questo non voglio dire che la FOMO sia nata nel 2010, ma che il confronto con vite diverse dalla nostra è diventato esponenziale da quel momento. I meccanismi che regolano i contenuti che vediamo, poi, giocano relativamente sporco e non abbiamo sempre l’educazione digitale sufficiente per capirlo. Come si fa, quindi, a rompere “il ciclo della disperazione”? Fumo propone un nuovo ciclo, quello della “Cicciarcùlo”, che si può tradurre con “Ma chi se ne frega”: se vuoi fare cose, l’importante è che freghi a te. Il confronto con gli altri è viziato a monte, usarlo come punto di partenza ci tiene dentro la spirale. Io ci ho messo anni di terapia per capirla, questa cosa. Non ho smesso di confrontarmi con le altre persone e la sensazione di “essere rimasta indietro” non mi ha abbandonata. In compenso, sono più consapevole di dove voglio stare, di cosa sono disposta a sacrificare e di quali sono i miei tempi.
È un lavoro continuo e stancante, perché sto cercando di smantellare il modo in cui il mio cervello ha funzionato per anni: ingigantire mancanze, errori, insoddisfazione e paura. Sentivo - e spesso sento ancora - di non rispondere correttamente all’idea di me che mi sono costruita e va bene così: il punto qui è non fustigarsi più, poggiare il righello e capire da dove arriva l’impulso, per me, di fare qualcosa.
Così, qualche giorno dopo Capodanno, ho comprato un maiale iridescente di porcellana che adesso mi fissa dalla mensola e ogni tanto riceve bigliettini con su scritte cose che voglio ricordare. Cose belle medie, cose belle assai. Cose belle su una scala da piacevole a “ehi, questa cosa è bella davvero”. Cose che mi aiuteranno a ricordare che la vita, a volte, è molto più di un 6.5.
Tutta invidia - Fuggire sì, ma dove?
Se come me passi le giornate a mangiarti il fegato per ogni assurdità che l’elezione di Trump si porta dietro - anche a casa nostra - voglio darti una cosa da invidiare insieme. Già, perché non tutta l’invidia è necessariamente foriera di astio e risentimento. A volte è semplicemente un modo per riconoscere che qualcosa di positivo sta succedendo, il problema è che non sta succedendo a te. Ecco, a inizio gennaio l’Irlanda si è ufficialmente unita alla causa contro Israele per genocidio a Gaza, presentata dal Sudafrica alla Corte internazionale di giustizia. Considerato che l’Italia ha continuato a inviare armi a Israele anche dopo il 7 ottobre 2023, oggi vorrei tanto, ma tanto essere irlandese.
P. S. Ringrazio Giovanni Nava per le illustrazioni e tutte le cose belle di Invidiosa.
© 2025 Angela Cannavò.
Le illustrazioni della newsletter sono di Giovanni Nava.
Se vuoi leggere i vecchi numeri di Invidiosa, trovi tutto in questa pagina.
Grazie aver dedicato un po’ di tempo a me e a questa newsletter. E visto che sei qui, abbiamo qualcosa da invidiarci?
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Sempre wow questa Invidiosa❤️
Amo ogni numero di INVIDIOSA. Mi piace quello che scrivi e come lo scrivi. E molto, molto spesso, descrivi esattamente come mi sento 😅❤️