Questo è il nuovo episodio di Invidiosa, la newsletter che prova a parlare di invidia in un mondo che ne prova tantissima ma fa finta di niente. A volte.
Avrei voluto pubblicare questa puntata sulle elezioni negli Stati Uniti un mese fa. Nel frattempo, però, è successo di tutto e certi discorsi sono invecchiati con la velocità di una pianta di basilico.
Perché scriverne ancora, allora? Perché non credo che queste riflessioni siano fuori tempo massimo: non sono angosciata come “il giorno dopo”, ma le mie riserve di ottimismo rimangono vuote per un bel po’ di motivi. Fine della premessona.
“Che goduria vedere i sinistri rosicare”
(un commento uguale a tanti altri, letto su Instagram)
Io non me la ricordo l’ultima volta che ho vinto. O meglio, mi porto a casa tante “piccole vittorie quotidiane”: un’intuizione giusta, un complimento, scrivere concentrata per mezz’ora. Sono conquiste utili, ma la mia idea di vittoria è molto diversa. Quelli che ho elencato sono successi piccoli e a volte un po’ casuali, un misto di fortuna e di ottusa perseveranza. Ma soprattutto, sono vittorie con una dimensione domestica, personale.
No, io quando parlo vittoria ho in mente una cosa grande. Un momento che ti toglie un peso dal cuore, che illumina ogni singola cosa nella stanza e che ti fa sentire parte di qualcosa di più grande. Sto parlando di una vittoria Fosso di Helm, uno di quei trionfi senza sfumature, senza incrinature, dubbi o appigli per i “ma”. Quel tipo di vittoria che prende tutte le mazzate sui denti, le rimette in ordine nel tuo passato e dà un senso al futuro. Qualcosa che va per il verso giusto non solo per te, ma per una quantità di persone intorno a te che non le immagini nemmeno. Come i contadini di Rohan che insieme a te si sono presi pioggia, fango e sangue per scoprire che ce l’hanno fatta, che questa volta il pericolo è lontano.
Forse, se non l’ho mai provata, è perché questo tipo di vittoria non esiste davvero. Forse è solo un topos, un ricordo impiantato da Peter Jackson nella testa di una bambina di 9 anni. Perché sai qual è il problema di quelle vittorie lì? Che mettono d’accordo tutte le persone in sala, ma nella vita vera la vittoria di A è la sconfitta di B. E perché nella “vita vera”, a volte, ci vogliono anni di sconfitte prima che la generazione successiva possa camminare a testa alta non tanto per dire che ha vinto, ma che almeno non sta perdendo più. Un po’ come racconta Sara Poma dentro “Prima”, la storia della prima donna italiana ad aver fatto un coming out pubblico.
Una vittoria Fosso di Helm è dell’umanità intera, non esclude perché non può permettersi di farlo. Questa unità, infatti, non è data dalla buona volontà della brava gente della Terra di Mezzo, ma dalla monumentalità di Sauron come nemico. Sauron è il male nella sua forma più pura e assoluta, un personaggio che fa il male perché ama il male: nessuna origin story sarà mai capace di giustificarlo, perché l’unica ragione che lo spinge è il Male e il potere di fare Male. È vero, Sauron può esistere solo se si ha una visione manichea della moralità, ma la semplicità di capire - e di temere - questo male è proprio quello che aiuta tutte le genti della Terra di Mezzo (e le persone che guardano il film) a decidere da che parte stare. La minaccia del potere di Sauron è così chiara che nemmeno l’Anello - che, di fatto, è un agente del potere - riesce a smantellare davvero l’unità di Frodo e compagnia.
Ma torniamo alle vittorie, perché mi sono ricordata di un brevissimo momento in cui ho avuto quella sensazione di calore. Luglio 2022, il mio primo vero concerto post Covid. Ero circondata da non so quante persone accaldate e pensavo che tutto quello sarebbe stato impossibile anche solo 7 mesi prima - il Natale che aveva messo in quarantena mezza Italia, di nuovo. Pensavo a cosa era stato capace di ottenere l’ingegno umano in relativamente poco tempo nonostante la paura, le perdite, i divieti, il dolore e una malattia che ci costringeva a una distanza innaturale. Pensavo che ce l’avevamo fatta con montagne di sacrifici, i vaccini e con un fragilissimo patto sociale che, tutto sommato, aveva retto. Guardavo le persone attorno a me ed ero orgogliosa di “noi”. Ma questa “vittoria universale” era una bugia. Perché per tante persone quegli anni e certe decisioni avevano voluto dire sconfitta, diffidenza, limitazioni, scontri. Avevano voluto dire inflazione, solitudine, fragilità. Paura, che si è trasformata in risentimento, che si è trasformato - anche - in voti.
E arriviamo all’ultimo mese. Perché se è vero che una “vittoria vittoria” non esiste, a questo giro non c’è nemmeno il premio di consolazione. L’elezione di Trump avrà un peso enorme su tanto, troppo: gli accordi per il clima, le conseguenze per il diritto all’aborto, la sicurezza di tante minoranze, il destino di Gaza e dell’Ucraina.
Sono cose sulle quali non avrei comunque alcun potere e, in ogni caso, mi gettano nello sconforto. Ma perché mi sento così sconfitta? È perché questo risultato prova che io, della realtà, non ho capito nulla? O perché tutto quello che ho citato riguarda anche me? O perché la validazione democratica dell’odio mi fa, beh, paura? Quest’ultimo punto non riesco proprio a togliermelo dalla testa, e ne ha scritto in modo così preciso che ti consiglio davvero di leggerla (mi andrebbe bene anche se mollassi Invidiosa qui, dico sul serio).
Non voglio fare un’analisi delle elezioni statunitensi, non ne ho le competenze e credo sia meglio lasciare sbrogliare alla gente più brava di me, ma a ‘sto giro vorrei rivendicare tutta la frustrazione di un’altra, incomprensibile sconfitta.
Rosico. E ci credo che rosico a ‘sto giro, mannaggia la miseria. Perché perdere fa male sempre. E fa ancora più male quando realizzi che la tua idea di “mondo migliore” non coincide con quella di una fetta enorme del pianeta. Rosico perché so quanto c’era in ballo con queste elezioni per tutte le minuscole battaglie di dignità che provo a portare avanti. Rosico perché mi ero illusa che certi diritti fossero come i progressi scientifici: una volta che hai visto i benefici dell’automobile sul cavallo, mica torni indietro no? Una volta che scopri cosa vuol dire un minimo di copertura sanitaria, non fai retromarcia, giusto? A proposito di shadenfreude: le reazioni dopo l’assassinio di Brian Thompson, il CEO della UnitedHealthcare, sarebbero da studiare. L’appoggio che sta ricevendo il presunto assassino online non nasce solo dalla mancanza di empatia, ma da vera e propria soddisfazione, una sorta di riequilibrio karmico nei confronti di un settore che ha praticamente diritto di vita o di morte sulla vita delle persone.
Insomma, rosico perché ho pensato che la solidarietà fosse più forte della paura. E forse il punto è tutto qui. Forse con la paura dobbiamo davvero ricominciare a parlare, capire come nasce e cosa sono disposte a fare le persone pur di mandarla via. Io sono la prima a non saperlo fare: boccio la paura come un sentimento infantile, una risposta primitiva a cose complesse che basterebbe solo approfondire, un’emozione che si può curare coi dati o un’informazione degna di questo nome. Ma non è vero, o di sicuro non è così semplice. Perché io stessa sono vittima del mio bias di conferma - cioè della tendenza a credere solo alle notizie che confermano la mia visione del mondo - ed è dolorosissimo accorgersi di aver preso delle grosse cantonate.
Come ha detto Luca Misculin in una supplenza Morning di diversi mesi fa - dopo le Europee, credo - scegliere di mantenere lo status quo in un mondo che cambia a gran velocità è la risposta perfetta per chi ha paura. Ma può esserci un’altra proposta, che spieghi invece di urlare o minimizzare? Di nuovo, non sono la migliore rappresentante dei buoni propositi: oscillo tra la consapevolezza che l’odio porta altro odio e la frustrazione di chi si chiede perché l’unica rabbia ingiustificabile sia la mia.
Oppure, con la rabbia si può fare altro. Il concerto di cui parlavo prima è stato anche il mio primo concerto degli Idles. È un gruppo punk di Bristol che ad agosto 2018, due anni dopo Brexit, due anni dopo Trump e nel bel mezzo del #MeToo, ha fatto uscire Joy as an Act of Resistance (La gioia come Atto di Resistenza). È un album che rivendica tutta la rabbia, il rosicamento e l’odio per le sconfitte di quegli anni consapevoli che ballare è un gesto politico e che ci si deve rompere le ossa per le persone che vogliamo proteggere. Ecco, se nel bel mezzo di quegli anni gli Idles sono riusciti a trovare una risposta incazzata nella gioia, forse è proprio dentro la mia rabbia che devo iniziare a cercare.
Tutta invidia - Ho bisogno di una mano
O meglio, ne hanno bisogno due persone che vivono a Gaza e con cui parlo spesso su Instagram. So che in questi giorni la nostra testa è andata in tante, tantissime parti del mondo ma a Gaza continuano a non entrare aiuti umanitari tra cui cibo, medicinali, coperte, tende e assorbenti. Qualche giorno fa una marea ha inondato le tende di chi vive sulla spiaggia perché lì, in teoria, l’esercito israeliano non bombarda. Un cavolfiore oggi costa 10 €.
Una delle due persone è Muatamed, che studia ingegneria informatica all’università di Gaza City. Ci teneva tantissimo a farmi vedere le foto dei laboratori della sua università e a raccontarmi di suo padre, che è diabetico e fa molta fatica a trovare l’insulina a Khan Younis, dove si stanno rifugiando adesso. Al momento non ha più una tenda, è stata distrutta qualche giorno fa da un bombardamento che lo ha separato dalla sua famiglia. In questa pagina c’è la sua campagna GoFund.
L’altra è Maram, che vuole diventare un’insegnante. Ha fatto da poco il compleanno e, mentre prova ad allestire laboratori per insegnare, cerca sempre un modo per raccogliere fondi e aiutare la sua numerosa famiglia. A questo link puoi vedere la campagna GoFund di Maram.
Seguirli, far girare queste storie o parlare con loro può essere di grandissimo aiuto (Muatamed mi chiede spesso di raccontargli com’è una mia giornata).
Grazie, davvero.
P. S. Ringrazio Giovanni Nava per le illustrazioni e tutte le cose belle di Invidiosa.
© 2024 Angela Cannavò.
Le illustrazioni della newsletter sono di Giovanni Nava.
Se vuoi leggere i vecchi numeri di Invidiosa, trovi tutto in questa pagina.
Grazie aver dedicato un po’ di tempo a me e a questa newsletter. E visto che sei qui, abbiamo qualcosa da invidiarci?
Fammelo sapere con un cuore, un commento o parlando di questa newsletter con chi ti va.
Ti hanno inoltrato questa mail? Iscriviti a Invidiosa.
Un'invidiosa necessaria, perché ci fa riflettere sulla paura. Paura di non vedere, paura di vedere. Paura, in sostanza. E come si fa a fare a patti con questo mostro complicato? Io non lo so, ma condividerla, esternarla e metterla a nudo nel suo non poter essere vittoria di tutti ma sempre sconfitta per qualcuno, aiuta. Con un mese di ritardo, ma arrivo anche io <3
Mannaggia la miseria che brava che sei. 😊