Ciao ❤️ Questo è il nuovo episodio di Invidiosa, la newsletter che prova a parlare di invidia in un mondo che ne prova tantissima ma fa finta di niente. Ogni tanto.
A inizio febbraio, chiacchierando con mio fratello, gli ho dato un consiglio sul lavoro. Sono “la grande”, lavoro da più tempo e ho un po’ di esperienze da raccontare. Come capita spesso nelle discussioni in famiglia mio fratello è andato sulla difensiva (il bello di crescere con un avvocato), così gli ho ripetuto quello che persone più sagge di me mi hanno detto all’università prima e al lavoro poi: “Non c’è niente di personale: se critico una tua decisione non voglio insegnarti a vivere”. Lui è tranquillizzato un po’ ma, col senno di poi, capisco la sua diffidenza. Pungolare i nostri punti deboli è sempre stato uno sport di famiglia e noi le critiche non le sappiamo prendere. Siamo come l’uomo che non reggeva l'alcol, ma con i giudizi altrui. Criticarci è sempre stato un modo per ritagliarci uno spazio, per sentirci un po’ più in alto rispetto all’altra persona: se lei era l’uva, farsi volpe era l’unico modo per “tirarla giù” - almeno idealmente. Ripeto, non dovrei stupirmi se, ancora oggi, facciamo una fatica gigante ad accettare consigli, suggerimenti, critiche o rimproveri.
E mentre parlavo con mio fratello, mi sono ricordata di questo passaggio che - a proposito, Stefania: come va l’esperimento? - ha scritto nella prima puntata di Controra del 2025:
Il numero due è fare una cosa semplice all’apparenza ma difficilissima nella sostanza: scegliere la persona più insopportabile, inconcludente, oppositiva e umanamente faticosa con cui mi devo confrontare in ufficio e provare a mettermi nei suoi panni quel tanto che basta a evitare di strangolarla.
Così ho pensato tanto al lavoro, alla gestione delle critiche e a cosa potrebbe rendere una persona “umanamente faticosa”. Ho pensato a chi sono io al lavoro, alle volte in cui ho avuto la stessa reazione di mio fratello e a come mi comporto quando vedo le persone attorno a me lavorare meglio, avere più successo, ricevere più riconoscimenti. La prima reazione è rosicare (altrimenti non scriverei questa newsletter). La seconda, invece, è sentirmi un’incapace. Ripensando alle parole di Stefania, allora, mi sono chiesta “Ma una persona che invidia perché incapace - o perché si sente incapace - riesce a mettersi nei panni di qualcun altro?” Non sono sicurissima della risposta. Di base, tendo per il “no”. L’invidia non è un sentimento empatico, anzi: chi invidia vede in te non solo quello che vorrebbe essere, ma anche un promemoria costante della propria insufficienza. La critica, per l’incapace che rosica, è l’arma più comoda e il migliore meccanismo di difesa. Lo so perché l’ho usata, al lavoro e non solo. Penso anche che, tolto un piccolo sollievo momentaneo, i danni siano più dei benefici.
Partiamo da una cosa importante: chi si sente incapace non è detto che sia letteralmente incapace. Può essere una persona insicura, può trovarsi a ricoprire un ruolo per cui non è formata o per il quale non ha l’esperienza necessaria. Oppure, la vita potrebbe aver circondato l’incapace di veri e propri fuoriclasse: in quei casi sarà normale sentirsi fuori posto, la frustrazione fa parte del gioco. La condizione di incapacità in sé, però, non è né un destino biologico né una vera e propria indicazione di incapacità.
Accanto a questo, come scrivevo qualche mese fa, in Italia abbiamo una paura abbastanza irrazionale della formazione post-lavoro: da un lato c’è questa legge non scritta per cui non si deve chiedere mai nulla, pena il disprezzo di colleghi e colleghe; dall’altro rivendichiamo con orgoglio la nostra ignoranza davanti alle “maestrine” - femminile non casuale - che vogliono farci pesare le loro competenze, la loro bravura o la precisione. Così ci ritroviamo in una posizione abbastanza contraddittoria: non possiamo dire di avere delle lacune e, per compensare, rivendichiamo comunque il valore della nostra “esperienza” (qualunque essa sia).
Il punto, però, è che l’incapace conosce la verità: sa di non sapere, di non saper fare o crede di non sapere fare. Non c’è da stupirsi quindi se questa consapevolezza si trasformi in insicurezza. Il punto è che, quando non si vuole o non si hanno gli strumenti per capire che il problema sta qui, nelle fondamenta sabbiose dell’incompetenza, si esternalizza la propria insicurezza, trasformandola in invidia verso chi sa di più o sembra collezionare più vittorie.
Il modo in cui si esprime questa invidia, per quello che ho visto, segue due strade: può fare accartocciare una persona su se stessa, facendole mettere in dubbio ogni sua capacità e ogni suo merito; oppure, può spingere una persona a cercare di “demolire” il soggetto della sua invidia. Della prima strada parlo spesso qui, perché è il modo in cui rispondo all’invidia: faccio paragoni ossessivi, mi costruisco degli alibi o cerco di convincermi che sono “meno”. Il secondo effetto, invece, è l’invidia archetipica, mitologica, teatrale: Caino e Abele, Aracne e Atena, Iago e Otello, praticamente ogni donna over 30 nelle fiabe dei fratelli Grimm, le protagoniste di Mean Girls. È un’invidia distruttiva, dove l’unica pace possibile sembra quella in cui la persona invidiata ha perso quello che le stava più a cuore (o che la rendeva invidiabile). È l’invidia che, per rispondere alla domanda “Perché a te sì e a me no?”, cerca di eliminare il termine di paragone.
Ma come funziona questo rosicamento al lavoro? Intanto, è un nemico subdolo verso chi lo prova, perché inibisce il desiderio e la necessità di voler imparare, aumenta il livello di paranoia e crea un loop di risentimento e ridimensionamento delle capacità altrui. Accettando il fatto che l’invidia è un sentimento presente anche nelle società più egualitarie, credo che oggi sia alimentata anche da una certa retorica dell’unicità, dell’essere la “persona prescelta” e del successo individuale come sola possibilità di realizzazione. L’idea del fallimento, o anche solo la condanna alla medaglia d’argento, rende giustificabile - se non addirittura normale - un continuo sgomitare e sgambettarsi, rendere l’ambiente di lavoro insostenibile per le persone di cui temiamo e invidiamo il talento. Anche se la logica vorrebbe che ci comportassimo come i pesci nella rete alla fine della Ricerca di Nemo, compatti e uniti contro chi cerca di pescarci, l’invidia distruttiva, invece, ci isola nell’individualità e ci costringe a piegare la realtà (fatta di meriti altrui e successi di gruppo) per aderire alla narrativa secondo cui c’è stato tolto il successo a cui avremmo diritto.
Più penso a questo tipo di invidia, meno credo che abbia senso in un contesto lavorativo che cambierà in maniera radicale quando la Gen Z entrerà a farne parte in modo permanente. Le ricerche che studiano le differenze tra le varie generazioni, infatti, evidenziano quanto, per le persone più giovani, il benessere sul luogo di lavoro sia centrale, molto più della possibilità di scalare la gerarchia aziendale. Quello che le generazioni più giovani sembrano cercare è un ambiente di lavoro sereno, che sposi i loro valori e che possibilmente dia loro una paga dignitosa. Una vita e un lavoro tranquillo che, per quello che vedo, non lasciano molto spazio all’invidia.
Nel frattempo, però, che si fa con le altre generazioni? Ecco, credo che dovremmo liberarci dal pantano della “scarcity mindset” - cioè quel pattern di pensieri che tende a farci concentrare su quello che non abbiamo e quello che non siamo -, dicendoci “stacce”. Non solo per accettarci meglio, con tutti i nostri spigoli, ma anche per ricordarci che viviamo in un contesto che ci influenza, ci ispira, ci trasforma. Pensare che “il grande talento” o il genio michelangiolesco vivano e siano capaci di creare in completa e totale solitudine è un’idea romanticizzata della realtà (nonché frutto di quell'individualismo spinto di cui si parlava prima). Vale per il mondo creativo, vale soprattutto per le scienze e la ricerca. Contribuiamo all’ambiente in cui lavoriamo tanto quanto lo fa “il genio”: c’è un po’ di noi nei suoi successi, e un po’ di quel successo in noi. Non so tu, ma è un’idea che mi dà tanto sollievo.
Tutta invidia - Fuggire sì, ma dove?
Succede che delle persone incredibilmente brave e divertenti fanno un podcast la cui prima puntata - sono da poco uscite seconda e terza, che non vedo l’ora di recuperare - parla proprio di invidia. e Moscatelli si armano di sociologia, antropologia e citazioni pop per spiegare cose della realtà in cui viviamo nel Tinello di Perpignan, che puoi ascoltare dentro CatramePod, la branca “audio” della newsletter Catrame & Libertà di Paola Natalucci. L’idea di trasformare questa newsletter in un podcast mi ha sempre stuzzicata, ma da procrastrinatrice provetta continuo a rimandare. Al netto del tempismo, però, ci sono due cose che ho invidiato tanto alle conduttrici: la prima è aver trovato un punto di vista sul rosicamento che io non ho nemmeno sfiorato; la seconda è la loro capacità di raccontare certi aspetti antropologici dell’invidia con una grazia che io vorrei tanto avere su questi schermi. Non ha senso dire di più, però, perché il Tinello merita di essere ascoltato.
P. S. Ringrazio sempre Giovanni Nava per le illustrazioni e tutte le cose belle di Invidiosa.
© 2025 Angela Cannavò.
Le illustrazioni della newsletter sono di Giovanni Nava.
Se vuoi leggere i vecchi numeri di Invidiosa, trovi tutto in questa pagina.
Grazie aver dedicato un po’ di tempo a me e a questa newsletter. E visto che sei qui, abbiamo qualcosa da invidiarci?
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E' andata che non l'ho strozzata, sarà la saggezza dell'età! (il podcast francamente lo amerei 😘)
Ma sono onoratissima di essere citata insieme alla Commare <3