Invidiata ignoranza
E il mio rapporto schizofrenico col voler sapere tutto senza imparare più.
Questo è il nuovo episodio di Invidiosa, la newsletter sulle cose che fanno gli altri mentre io sto a guardare. Anche se un po’ in ritardo, è bello vederti 👋
A inizio settembre sono stata al Festivaletteratura di Mantova, un festival letterario internazionale a cui voglio molto bene. Se i libri sono la tua cosa, regalati una giornata di incontri: ti accorgerai subito della complicità che c’è nell’aria.
Ma torniamo a noi. Mentre seguivo l’incontro con Christelle Dabos, l’autrice francese della saga dell’Attraversaspecchi, una voce femminile dietro di me fa una domanda in perfetto francese. Non mi giro a guardare perché non voglio farla sentire in imbarazzo ma ho deciso che è una ragazza: ha una voce delicata, un po’ timida, quindi è una ragazza (forse avere seduto davanti un gruppo di lettura per adolescenti mi ha un po’ condizionata. Capito Mantova? Adolescenti che leggono insieme). Così, mentre ascolto la domanda senza capire nulla, penso “Che invidia, avrei proprio dovuto studiare meglio un’altra lingua da piccola”. Già, da piccola. Perché il mio subconscio ha deciso due cose: 1) che c’è un’età per imparare e un’età in cui devo “essere già imparata”; 2) che io l’età per imparare l’ho superata, visto che cose complesse come una nuova lingua si possono acquisire solo “da adolescenti”.
E non credo di aver avuto questa reazione solo perché più sei giovane, più alta è la tua predisposizione ad assorbire le cose come una spugna. Penso più che altro che, fino a che non si chiude un percorso scolastico, imparare è una grossa fetta della quotidianità di una persona sotto i 18 anni. Non a caso, siamo i mammiferi che più hanno allungato il tempo di apprendimento necessario alla cucciolata per diventare autonoma.
L’autonomia, però, non è certo una patente di conoscenza: il mondo è un gran casino e cambia piuttosto in fretta. Impariamo ogni giorno a cambiare con lui, anche se ogni persona lo fa con le sue velocità (compreso chi invece vorrebbe piantare una bella ancóra e non spostarsi mai).
Perché, allora, c’è una parte di me che sente di non poter più fare domande? Ci sono momenti in cui mi sento obbligata a mostrare che non ho più nulla da imparare, che non ci sono “crepe” di ignoranza sulla mia facciata. È questo quello che intendo con “essere già imparata” (è voluto, giuro): la necessità di mostrarmi sempre già informata, già preparata, già competente, e tutto per delle aspettative che non saprei a chi attribuire. Questa pressione io non ho capito come gestirla nel tempo: così, quando non so, mento. A volte anche spudoratamente, ma sempre in modo abbastanza vago da risultare credibile. È automatico ed e più forte di me. Piuttosto che ammettere di non aver letto quel libro, ascoltato quel gruppo o visto quel film, metto su una piccola pantomima sperando che tutto passi in pochi minuti. Non scatta quel piccolo vantaggio correttivo che l’invidia “sana” può generare: mi sembra più “normale” schiaffare un po’ di intonaco sulla facciata per coprire le crepe e, una volta che l’inganno è riuscito, non mi sento in grado di fare interventi strutturali.
Da dove nasce questa paura per l’ignoranza? E perché, quando provo invidia per chi sa di più, non mi rispondo subito “Beh, forse dovrei imparare questa cosa anche io”?
Ho provato a darmi un po’ di risposte: alcune arrivano dall’esperienza, altre da cose che ho letto e ascoltato in questi giorni.
Crescendo, smettiamo di farci domande. È dal 2017 circa che diverse ricerche dimostrano come, tra i 4 e i 6 anni, la quantità di domande che i bambini fanno crolli drasticamente. Se da un lato è possibile che si tratti di un processo naturale (dopo un po’ hai acquisito certe conoscenze), altre ricerche ritengono che l’impostazione delle scuole nel mondo in qualche modo inibisca la necessità di fare domande proprio per come funzionano le lezioni frontali. L’apprendimento come competizione potrebbe essere anche un altro dei motivi per cui abbiamo paura di mostrarci ignoranti. Durante il suo intervento al festival della Scuola Belleville, Stefano Bartezzaghi ha raccontato dell’ansia diffusa tra i suoi studenti anche dopo aver passato l’esame: “Vedi? È andato tutto bene - Sì, ma ho paura di non farcela.” La cultura del fallimento - e c’è una puntata incredibile di Qualcosa, la newsletter di , sul fallimento - ci tiene sulla difensiva, non concepisce rischi.
In Italia abbiamo un rapporto ambiguo con chi insegna e, quindi, con chi fa domande: c’è una grande insofferenza verso chi cerca di farci imparare qualcosa, e lo mostriamo in vari modi. Per esempio, ho provato a cercare se il concetto di “fare la maestrina” in senso dispregiativo esiste in altre lingue e non ho trovato una traduzione 1:1. Oppure, pensiamo alla polemica annuale sui tre mesi di ferie di chi insegna nelle scuole italiane (dove ci si dimentica di aggiungere che paghiamo molto poco gli insegnanti rispetto alla media dell’Unione europea). Sembra che l’idea di dove “provare qualcosa” o di doversi confrontare ci disturbi. E stare sui social non aiuta: per come funziona l’algoritmo, continuiamo a vedere solo opinioni vicine alla nostra e che tendono a disumanizzare chi la pensa in un altro modo - senza tenere conto del danno fatto da fake news e contenuti incompleti. Ecco un breve scambio su threads di qualche giorno fa dove mi è stato dato, nell’ordine, della stupida, della comunista e della cretina ignorante che non studia.
E tutto questo per aver chiesto le fonti di un’affermazione molto grave e parzialmente corretta che ho trovato dopo due giorni di ricerche in autonomia.
Spesso abbiamo paura di investire nella nostra formazione perché lo studio viene raccontato come un mezzo verso un fine. Se l’investimento per un master professionalizzante o una scuola di specializzazione è l’unico modo per lavorare, mandiamo giù il rospo e accettiamo di studiare. Ma se il fine è la formazione stessa, facciamo più fatica a buttarci. Però ci sono professionisti e professioniste di gran valore là fuori, la cui capacità di trasmettere conoscenza è indiscutibile. Se sentiamo di avere una lacuna, affidarci a chi ne sa di più riconoscendo la sua competenza è un investimento su di noi.
Dopo quella piccola puntura dell’invidia a Mantova ho chiesto a me stessa di fare una cosa: basta mentire. Dì che non sai, chiedi indicazioni, fatti spiegare se qualcosa non è chiaro. Non c’è niente di male se non conosci una seconda lingua straniera a trent’anni: se ti interessa, puoi provare a imparare. Magari non riuscirai ma ehi, ma importa davvero?
Capire come usare l’invidia è il motivo per cui scrivo questa newsletter. Voglio rispondere in modo sano all’impulso di guardare chi può darmi qualcosa che non ho. E so che in parte lo faccio già: con la consulenza e la Posta Creativa di , con Linguetta di e Alternate Takes di - che parlano di creatività, lingua, linguaggio e scrittura -, con le storie che racconta dentro Una figlia per amica, con eventi come il DiParola Festival.
Chiudo con una citazione da A daydreaming mind di sull’autenticità e sull’essere persone migliori, che ha dato una bella spinta a tutti questi ragionamenti sull’ignoranza:
L’unico modo che si ha per esser certi di fare un buon lavoro è scrivere per allenarsi (e invogliare) ad essere persone migliori, autentiche. Di quelle che fuggono le banalizzazioni, hanno muscoli forti e una spina dorsale che si nota a chilometri di distanza. Solo così si può smettere (magari una volta per tutte) di pensare di stare commettendo il solito errore. Il più grosso di tutti.
Tutta invidia - Informazioni di servizio
Che newsletter sull’invidia sarebbe senza qualcosa che mi ha fatto rosicare?
Vorrei fare una puntata a tema cittadinanza prima o poi, anche perché sono convinta che in questo caso ci sia un rapporto interessante tra privilegio e invidia (anzi, se conosci o vuoi candidarti per l’intervista, bussa pure). Ma ci sono cose più importanti da dire e il tempo è poco: sono rimasti 9 giorni per firmare il referendum sulla cittadinanza e siamo quasi a metà (servono 500.000 firme, oggi siamo al 46%). È ovviamente un referendum abrogativo, che propone di abbassare le tempistiche per concedere la cittadinanza a chi vive, studia e lavora in Italia da 10 a 5 anni, inclusa la possibilità di trasmetterla a figli e figlie. Stiamo parlando di quasi 2 milioni e mezzo di persone che partecipano attivamente alla vita di questo Paese ma non possono votare, studiare all’estero e poi tornare o partecipare a concorsi pubblici. Puoi fare tutto con lo SPID: ci ho messo 2 minuti, cronometrati.
P. S. Ringrazio Giovanni Nava per le illustrazioni e tutte le cose belle di Invidiosa.
© 2024 Angela Cannavò.
Le illustrazioni della newsletter sono di Giovanni Nava.
Se vuoi leggere i vecchi numeri di Invidiosa, trovi tutto in questa pagina.
Grazie aver dedicato un po’ di tempo a me e a questa newsletter. E visto che sei qui, abbiamo qualcosa da invidiarci?
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Cara Angela, grazie davvero per avermi citata in questo super gruppo, ne sono onorata. Mi ritrovo molto in quello che scrivi, mi ha fatto pensare agli anni da social media manager in cui non avevo altra possibilità che stare sul pezzo e rispondere "Sì, certo, come no" a qualsiasi domanda/richiesta sull'ultimo trend. Mi costringevo a sapere cose di cui sotto sotto non me ne fregava niente e, quando non sapevo la risposta, ostentavo sicurezza per non sfigurare mentre memorizzavo tutto per poi cercare online in un secondo momento. Negli ultimi anni ho riscoperto l'imparare come una forma di curiosa libertà e mi piace sapere che ci sono miliardi di cose che non conosco ancora e che aspettano solo di essere trovate. Grazie per aver scritto così di questo tema a cui anche io tengo molto.
Grazie Angela per le belle cose che dici di me e Linguetta, e per avermi messo insieme a tante altre persone che leggo sempre con piacere.
Grazie anche per questa puntata di Invidiosa, perché quella fragilità nel sentirsi non adeguatə l'ho provata e la provo anch'io, e mi sento sempre pure io in difetto per il non saper padroneggiare una seconda lingua. È sempre bello sapere di non essere solə.