Questo è il nuovo episodio di Invidiosa, la newsletter sulle cose che fanno gli altri mentre io sto a guardare 👋
Felicità: Stato d’animo di chi è sereno, non turbato da dolori o preoccupazioni e gode di questo suo stato.
Ho un’idea molto precisa di cos’è la felicità. La definizione un po’ fredda da dizionario - ho preso quella della Treccani - non mi dice granché. Che me ne faccio di un confine così ampio da tenere dentro tutto? No, per me la felicità ha senso solo se trova una forma definita, che spieghi come raggiungere quello stato di appagamento. E ho un’idea abbastanza precisa di come si raggiunga questa felicità: ha a che fare col desiderio, con un ricordo di soddisfazione che adesso non riesco più a trovare. A pensarci, è davvero strano che in un anno e mezzo di newsletter sull’invidia io non abbia mai guardato la felicità più da vicino. È una cosa facile da invidiare, no? Un concetto così astratto da stare bene su tutto: le famiglie felici, le coppie felici, le carriere felici. Una volta trovato il soggetto adatto, proiettarci sopra la nostra idea di felicità è facilissimo. E se tendi ad avere un’idea di felicità totalizzante quanto la mia, anche il più piccolo degli indizi ti farà dire “Vedi, quella sì che è vita!”
In sostanza, io credo che la felicità sia questo: capire cosa sei maledettamente bravo o brava a fare e farlo, come se quell’attività desse un senso ai giorni su questo pianeta. Non è tanto il seguire una passione - che non sempre va a braccetto col talento - ma più il riconoscere un’inclinazione così naturale da far appassionare.
A inizio aprile ho letto “Sei donne che hanno cambiato il mondo” di Gabriella Greison e - nonostante il libro non mi abbia fatto impazzire - queste sei scienziate (chimiche, fisiche e matematiche) incarnavano esattamente questa idea di talento, ossessione al limite della monomaniacalità e identità definita dal loro agire nel mondo. La semplice idea che tutte loro - tra cui Marie Sklodwoska Curie, Rosalind Franklin o Emmy Noether - fossero spesso le prime o le sole a frequentare certi corsi universitari da metà ‘800 in poi rende l’idea di quanto fosse chiara, per loro, questa vocazione.
Ho questa idea un po’ romanticizzata e sicuramente poco sana anche di chi lavora con la musica o fa sport al livello professionale. Sento che senza anche un briciolo di talento sia impossibile trasformare la passione in disciplina, così come credo che sia vero il contrario: puoi allenare la tua scrittura quanto vuoi, ma non diventerai Stephen King se ti mancano le sue intuizioni.
So bene che vite così spesso chiedono rinunce gigantesche, che io non sarei in grado di fare. E allora mi chiedo: “non ho trovato la Grande Missione della Vita perché non voglio rinunciare a cose (compresa la mia pigrizia) o perché il desiderio di tenere tante passioni sullo stesso livello mi rende impossibile trovare la Grande Vocazione Esistenziale?”
O forse, banalmente, la vita che faccio e la vita che penso di dover fare viaggiano su piani paralleli. Non sono una persona mediocre, e in tutta onestà non credo che le persone mediocri esistano. Non è che forse la vita che idealizzo non mi ha permesso di vedere in cosa sono brava davvero? E non è che le cose in cui sono maledettamente brava, banalmente, non mi interessano?
Faccio un esempio pratico: mi trovo estremamente a mio agio con bambini e bambine sotto i 10 anni. Riesco a parlare una lingua che comprendono, non ho problemi a farmi ascoltare e mi diverto sempre a stare con loro. Non ho mai pensato però, nemmeno per un secondo, di diventare un’educatrice. Oltre a essere un lavoro di gigantesca responsabilità, non mi attrae come lavorare con le parole. E forse, in tutta onestà, è un po’ lontano dall’idea che ho di me. Così mi chiedo: non è che ho preferito assecondare un’identità ideale rispetto a qualcosa che avrebbe potuto rendermi felice perché, banalmente, mi viene naturale? Sono - o forse siamo - un po’ ossessionati da questo discorso sull’identità?
Sabato scorso, nella penultima puntata delle Parole della Filosofia su Radio3, Pietro Del Soldà faceva un piccolo excursus sulla storia dell’identità come principio filosofico, ossessione contemporanea e chiave per interpretare il mondo. Di tutto quello che ha raccontato c’è un punto che ha molto senso in questo racconto che sto facendo, anche se un po’ estremo: cambiare la propria identità è accettare una forma di morte. Dopotutto, se anche le nostre cellule si rigenerano costantemente, noi non siamo fisicamente la stessa persona dall’infanzia alla vecchiaia. E se tutte le esperienze che incrociamo lasciano una traccia su di noi, il risultato è - alla fine dei conti - una persona nuova. Per dirla con le parole di Del Soldà “la vita si impasta con la morte”. Che nasca quindi da qui il bisogno di mettere un punto e di definirsi? Quello che facciamo, alla fine dei conti, è il modo in cui passiamo la maggior parte del nostro tempo da svegli: se le nostre azioni non ci rispecchiano, diventa difficile tracciare dei confini. E questo mescolarsi continuo è, in qualche modo, accettare di essere finiti.
O forse il motivo per cui felicità e identità vanno così tanto a braccetto è un altro, e ne parla benissimo Emanuela Anechoum in “Tangerinn” (ne ho scritto qualche Invidiosa fa): in un’epoca di iperperformatività, riuscire a definire chi siamo è l’unico modo per staccarci dalla mediocrità. In qualche modo, l’identità ci dà anche dei parametri misurabili per definire dei risultati e decretare il nostro successo. Così la narrazione performativizzante - verso l’esterno, ma anche verso di noi - si riempie di tasselli e di contenuti (e, va da sé, abbiamo tonnellate di strumenti per amplificare gli effetti e il pubblico di questa narrazione).
Forse, allora, nella mia idea di felicità c’è una piccola falla. Detta in modo molto semplice, non è mia. È una cosa costruita da fuori, di cui piano piano sono stata convinta nel tempo. Arrivati a questo punto, allora, credo che sia arrivato il momento di cercare una definizione di felicità davvero mia, che funzioni per la persona che sono e non per quella che penso di dover essere.
Smontare il tabù: quattro chiacchiere con Alessia Ragno
In questa sezione parlo di invidia con una persona diversa ogni due settimane. Se vuoi dire qualcosa, hai in mente un tema o vuoi raccontare la tua versione dei fatti, scrivimi. Smontiamo insieme questo tabù.
Alessia Ragno è una fisica, ma scrive di libri su L’Indiependente e su Instagram. Fra un’analisi letteraria e l’altra pubblica anche racconti brevi che trovi sul suo sito (l’ultimo in particolare è una chicca: di una delicatezza che wow, grazie Alessia). Vive a Bari con due cani e molti più libri rispetto a quelli che la sua libreria potrebbe contenere.
Hai una laurea in fisica, sei stata una giornalista pubblicista, ti occupi di letteratura e scrivi racconti. Come direbbe Walt Whitman, contieni moltitudini: tutte queste “Alessia” influenzano il modo in cui scrivi? O ci sono pezzi di te che hai dovuto mettere da parte per farne emergere altri?
Tutte queste “Alessia” dialogano fra loro, ma non vanno molto d’accordo. È difficile far convivere le moltitudini, soprattutto quando si cresce nel mito della “vocazione”, quell’idea che sin da bambine (o nel migliore dei casi da adolescenti) dovremmo avere già chiaro cosa fare nella vita. Mi ci è voluto un po’ per capire qual è la versione più autentica di me, o almeno quella che per ora mi convince di più, ed è stato un lavoro lungo anni, soprattutto perché mi è servito coraggio per dirmi che avevo sbagliato direzione, nonostante mi fossi adattata molto bene. Sicuramente ogni giorno provo a mettere da parte la versione di me più rigorosa, quella che mi ha convinta che potevo cimentarmi in qualcosa solo se mi fossi rivelata brava. La verità è che se non ci si prova nemmeno è difficile diventare brave, quindi ero finita in un circolo di frustrazione autoinflitta. Adesso, ci tengo a dirlo, non mi sento affatto brava, ma va bene così perché per quanto la scrittura, per me, sia fatica e mediazione con la voce giudicante, trovo sempre una scintilla e un’idea che mi fa divertire. A lungo la mia scrittura è stata influenzata da questo falso mito della bravura assoluta, ora va meglio ed essere una voce tra tante è una bella sensazione.
Su Instagram racconti spesso che, quando esprimi un giudizio verso il tuo lavoro, senti la voce di Francesco Piccolo (scrittore, sceneggiatore, autore, Gran Prezzemolo della letteratura). Ti va di raccontarmi perché lui e come ti sei accorta che “Piccolo ti parla”?
Ho la tendenza a fissarmi ciclicamente con varie autrici e autori, cosa che dipende anche dalla mia natura ansiosa: tornare su libri e audiolibri conosciuti mi calma. Avevo già letto il terzetto di “Momenti di trascurabile felicità”, “Momenti di trascurabile infelicità”, “Momenti trascurabili, vol.3”, e li avevo riascoltati, poi, in audiolibro. Sono volumi brevi, alcune parti sono elenchi di azioni, ricordi, sensazioni, e la combinazione tra accento campano di Piccolo e il suo modo di scrivere ironico ha creato una sorta di imprinting letterario. Ho continuato ad ascoltare tutti i libri letti dalla sua voce perché oramai per me era diventato un suono riconoscibile, calmante. L’altro libro di Piccolo che è entrato tra i miei preferiti è “Il desiderio di essere come tutti”, vincitore del premio Strega del 2014, e persino in quel titolo e in tutti i suoi romanzi più seri emerge la stessa perfidia bonaria, anche quella oramai per me estremamente riconoscibile, come la sua voce. Piccolo ha quest’abitudine di scrivere giudizi impietosi, a volte condivisibili, altre volte no, ma sempre con la stessa aria da bonaccione, con uno “sto scherzando” implicito che prova a mitigare la spietatezza. Ho anche io un modo tutto personale di prendermi in giro e trovarlo nei suoi libri ha contribuito ad accendere la mia associazione mentale: sarebbe stata la sua voce a ricoprire il ruolo peggiore nella mia testa, quello del giudice supremo inflessibile, ma con l’aria da bonaccione e l’accento di Caserta. Non è bello quando arriva la voce di Francesco Piccolo nella mia testa, però dargli un nome mi aiuta, paradossalmente, ad arginarla più spesso. Però io voglio bene a Piccolo e ci tengo a precisare che non ha nessuna responsabilità, anzi lo invidio tanto, ma con affetto.
Domanda che non posso non fare in questa newsletter: c’è una persona, un progetto o addirittura uno stato d’animo che invidi?
Invidio tante cose, ma con moderazione. Intanto invidio Francesco Piccolo, ma questo oramai è assodato, però invidio soprattutto le persone spavalde perché la paura è un’emozione che mi ha sempre tormentata. Se parliamo di progetti, invece, ti confesso che invidio molto le persone capaci di scrivere un romanzo intero, anzi più romanzi interi, e che con queste storie arrivano anche a pubblicare. Non invidio, però, i tour di presentazione (anche se da spettatrice amo ascoltarli), perché il mio ideale sarebbe scrivere senza apparire mai, un po’ come Elena Ferrante. Per ora mi è riuscita solo la parte del non apparire quasi mai con il mio volto online, ma trovo che sia già un ottimo risultato.
Tutta Invidia - La donna che vorrei
Che newsletter sull’invidia sarebbe, senza qualcosa che mi ha fatto rosicare?
Ogni anno seguo con passione e ammirazione la StaffettaMissconosciute che Missconosciute - il podcast e progetto di divulgazione sulle scrittrici italiane e non - organizza per il 25 aprile. Di tutte le storie straordinarie raccontate quest’anno, quella di
Alba de Céspedes mi ha lasciata con un sapore di vittoria, ammirazione e un pizzico di invidia: scrittrice, partigiana, intellettuale. Una delle più prolifiche e avanguardistiche autrici italiane, una vita che dà le vertigini. Se vuoi, c’è anche una bellissima puntata di Wikiradio che la racconta: io l’ho conosciuta così.
Angela
P. S. Ringrazio Giovanni Nava per le illustrazioni e tutte le cose belle di Invidiosa.
© 2024 Angela Cannavò.
Le illustrazioni della newsletter sono di Giovanni Nava.
Se vuoi leggere i vecchi numeri di Invidiosa, trovi tutto in questa pagina.
Grazie aver dedicato un po’ di tempo a me e a questa newsletter. E visto che sei qui, abbiamo qualcosa da invidiarci?
Fammelo sapere con un cuore, un commento o parlando di questa newsletter con chi ti va.
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Sei meravigliosa e non sai quanto tutto ciò che hai scritto parli di me! Mi presento: sono Silvia e sono un invidiosa, enneatipo 4 se conosci l'enneagramma. Nel corso degli anni, sto cercando di competere un pò meno con me stessa e con gli altri e allora apprezzo di più I momenti felici. Grazie, mi sento in famiglia ❤️