Questo è il nuovo episodio di Invidiosa, la newsletter sulle cose che fanno gli altri mentre io sto a guardare 👋
Tempo fa ero ossessionata da una serie di spot che Procter&Gamble (la multinazionale che possiede un sacco di brand che fanno prodotti per la casa, tipo Dash o Swiffer) ha lanciato tra il 2012 e il 2016 per le Olimpiadi, sia invernali che estive. Lo spot - ecco il link per vedere il più recente, funzionava sempre così: vediamo crescere 4 sportivi e sportive che, grazie all’aiuto delle loro madri (che fanno solo lavoro di cura, non c’è ombra di altre carriere), coronano il sogno di ogni carriera sportiva: la medaglia olimpica. Le storie arrivavano da tutto il mondo, le discipline erano sempre diverse e delle madri ti rimaneva non solo l’amore, ma anche l’immensa forza e fatica della vita di ogni giorno. Bastava aggiungere la musica di Ludovico Einaudi, gli abbracci finali con la mamma in lacrime e io mi scioglievo come burro al sole. Vengo anche da una famiglia che dello sport ha fatto una professione, quindi il colpo era doppio.
Oggi riguardo quegli spot e ci sono tante, tantissime cose che non mi tornano - a partire dai testi (in gergo, copy ad) finali: sono retorici e costruiti con un linguaggio giusto per il tempo e che oggi, credo, non useremmo. Dico “Credo” un po’ perché a certi stereotipi il mondo della pubblicità fa fatica a rinunciare, un po’ perché forse non sono più abituata a vedere delle madri raccontate da un punto di vista così esterno a loro. Almeno, non nella pubblicità.
Da dieci anni a questa parte - il primo spot della serie P&G ne ha 12 - una grossa fetta narrativa sul ruolo delle madri la fanno le madri stesse: dove prima c’erano i blog, oggi sono arrivati i social. Questa cosa ha creato una piccola scossa tellurica su come si racconta la maternità, qual è il suo futuro e che rapporto hanno le persone che hanno scelto di mettere su famiglia oggi, in questa Italia e in questo periodo.
Parlare di maternità sui social ha creato spazi di condivisione impensabili prima, ha amplificato con esperienze dirette e denunce su tabù come quello della violenza ostetrica, ha portato a discutere (poi vedremo che succederà) proposte come quella di rivedere il calendario scolastico. Allo stesso tempo, però, ha portato bambini e bambine ad essere iper esposti online senza consenso, ovviamente, o tutela della loro privacy. Ha legittimato un sottobosco di professioni, consulenti e corsi che si vanno a infilare lì dove il sistema sanitario nazionale non arriva più. Ultimo ma non per ultimo, ha creato diverse figure che mostrano un modo di vivere la maternità molto diverso ed edulcorato rispetto a quello che una madre in Italia vive ogni giorno. Questa iper-personalizzazione porta, per forza di cose, a un paragone sul piano personale. La responsabilità non è più sul sistema in cui le madri si trovano, ma sulle loro capacità individuali.
Ora, io non sono una madre e parlare di cose che non conosco mi spaventa sempre un po’. Ma se io già vivo questo senso di paragone costante sui temi più disparati, come può sentirsi una persona che ha anche la responsabilità di crescere un altro essere umano davanti a tutta questa sovraesposizione di consigli, esempi, vite, scambi? Magari riesce a crearsi una rete di sostegno. O magari, al contrario, la sensazione di solitudine aumenta. Perché se è vero che per crescere un bambino ci vuole un villaggio, in Italia tendiamo ad avere un rapporto piuttosto schizofrenico con questo concetto.
Alla maternità riserviamo una dimensione privata - quindi a carico della cittadina - e una dimensione pubblica.
La dimensione privata ha a che fare con il ruolo della donna e della madre come parte della società, e che in quanto tale richiede supporto e riconoscimento nella forma di asili nido, costi accessibili per le attività dell’infanzia e dell’adolescenza, la stessa quantità di giorni di congedo parentali per madri e padri, e tanto altro. Sono iniziative strutturali, che chiedono investimenti e un cambiamento culturale. Ora come ora, però, queste richieste sono delegate alla dimensione privata delle donne. Per dirla in modo semplice, che le madri si arrangino. I dati e le conseguenze di questo le conosciamo, e questo articolo di openpolis dà un quadro perfetto della situazione, ma voglio riassumere i dati più importanti:
siamo molto al di sotto della media europea per l’occupazione femminile: 62,6% VS 76,2%;
l’Italia è spaccata in due: se la media di occupazione nelle regioni del nord e del centro è rispettivamente al 73,4% e al 66,4%, al sud si scende al 47,1%. Meno donne lavorano, meno asili ci sono. Un circolo vizioso.
Dicevo, c’è ache una dimensione pubblica. È quella della madre-archetipo, la madre che mette sempre davanti i suoi figli (a volte anche davanti la sua stessa vita), la madre che ama a prescindere, la madre che “sente e sa”. È una madre che tiriamo - e dico collettivamente - fuori quando la realtà ci porta storie che contraddicono questo ideale. Ne hanno parlato in modo perfetto la giornalista Anna Bardazzi e l’avvocata Roberta Sandri nel penultimo episodio di “Ricorda il mio nome”, la newsletter che ha l’obiettivo di sensibilizzare sulla violenza di genere e ricordare i nomi delle donne uccise in quanto donne. Raccontando il processo ad Alessia Pifferi e ad altre “madri assassine”, hanno evidenziato quanto essere madri abbia influenzato il giudizio di media, opinione pubblica e magistratura, perché per la società tutta non è processabile che una madre si comporti in modo violento, incurante o meschino. Ecco perché viene quasi sempre chiesta una perizia psichiatrica: non riusciamo a spiegarci come “una madre sia capace di questo”.
In generale quindi, quando si parla di maternità, è la versione “archetipo” che ci sentiamo più in grado di commentare. Se uniamo questo al fatto che giudicare chi secondo noi non si comporta correttamente è un atto catartico - ne avevo parlato in questo episodio di Invidiosa sul caso Ferragni -, il carico di aspettativa che una madre ha è alto. E questa cosa sui social può diventare devastante.
Quando vivevo in Inghilterra seguivo una coppia di influencer con quattro figlie, tra cui due gemelle che erano la cosa più vicina a un putto che potessi immaginare: Clemmie e Simon Hooper, conosciuti anche come Mother of daughters e Father of daughters. Lei è un’ostetrica, lui un manager di qualcosa. Erano divertenti, sinceri e con un ottimo gusto per l’arredamento d’interni. Erano una piccola porticina su una cultura che non riuscivo a fare mia (spoiler: non ci sono riuscita comunque) ed erano invidiabilissimi non solo per chi vuole diventare quel tipo di adulto lì, ma anche per chi ha avuto una famiglia molto diversa. Quando ho lasciato Londra ho iniziato a seguirli meno finché, nel 2019, ho beccato un post in cui Clemmie chiedeva scusa e spiegava che avrebbe chiuso il suo account Instagram. Allo stesso tempo, Simon spiegava che era sconvolto da quello che aveva scoperto su Clemmie, che ne avrebbero parlato ma che era all’oscuro di quello che la moglie stava facendo. Cos’era successo? Clemmie aveva creato un account finto con cui “trollava” altre madri influencer, criticandole. Quando alcune persone avevano notato che alcuni post di Clemmie e del troll avevano le stesse coordinate, hanno unito i puntini. Clemmie ha ammesso di aver aperto quell’account perché non riusciva più a reggere certe aspettative: aveva letto commenti negativi e molto pesanti sulla sua famiglia e questo, per lei, era stato il modo più naturale di reagire. Pensava che indirizzare quella negatività sui profili di altre “colleghe” avrebbe risparmiato il suo (di profilo) e la sua (di famiglia) dai discorsi d’odio onlie. Risultato: Clemmie ha chiuso il profilo mentre Simon è ancora online, con 853.000 follower.
Dall’altro lato dello spettro, ci sono storie come quelle di Ballerina Farm, la momfluencer statunitense che ha studiato alla Julliard ma ha mollato tutto per vivere in campagna, crescere i suoi 8 figli e avere un contatto costante con la natura. Hannah Neeleman - su cui pure Repubblica ha fatto un articolo di recente - ha fatto quella che molte persone chiamerebbero una scelta controcorrente. E ovviamente la scelta ha pagato, a giudicare dal giro economico che il suo profilo ha generato. Peccato che dietro questa vita da TradWife (trend su Instagram e TikTok dove molte donne raccontano la loro decisione di vivere come casalinghe degli anni ‘50) ci sia un suocero multimilionario che di lavoro fonda compagnie aeree. Omettere questi “particolari” non solo crea una narrazione distorta, ma può generare un grande senso di inadeguatezza (e ovviamente di invidia) nelle madri che vivono in modo diametralmente opposto, per desiderio e per esigenza. Per una donna ogni scelta libera è una scelta valida, ma non mi sembra un caso che Hannah Neeleman sia una sostenitrice del movimento pro-vita. Muna volta che il meccanismo dell’invidia è scattato anche per casi come questi, cosa si può fare?
Sviluppare degli anticorpi. Misurare l’inadeguatezza, l’invidia e il senso di colpa come una febbre. Allenarsi a capire quali profili ci fanno stare bene e quali alimentano quelle sensazioni di malessere. Non tanto perché è meglio rimanere in una bolla, ma perché stare online in modo sano è anche imparare, scambiare, sentirsi in grado di progettare qualcosa che sia a beneficio di tutte. E mettere al centro delle nostre conversazioni quello che viene relegato al privato quando dovrebbe essere desiderio comune.
Smontare il tabù: quattro chiacchiere con Gaia Mazzucco
In questa sezione parlo di invidia con una persona diversa ogni due settimane. Se vuoi dire qualcosa, hai in mente un tema o vuoi raccontare la tua versione dei fatti, scrivimi. Smontiamo insieme questo tabù.
Gaia Mazzucco è nata 34 anni fa sul mare ligure di La Spezia ma abita da sempre a Milano. Scorpione ascendente Leone, crede fortemente nell’astrologia. Adora l’acqua, la colazione e lo yoga. È intollerante al lattosio e all’arroganza. Abita con bambino - Gio, 6 anni -, una gatta - Febe - e un fidanzato - Filippo. Ha studiato economia e comunicazione. Oggi si occupa, dentro NeN, di organizzazione di persone e processi nel team Tech. La sua passione per le persone l’ha portata a certificarsi come coach e oggi segue professionist* nella loro crescita personale e professionale.
Femminista e sensibile alle tematiche di DE&I, fa parte, all’interno dell’azienda, del team DE&I ed è mentore di due associazioni che si occupano di questo tema - Shetech e WXI. Crede nei valori del benessere e delle crescita e cerca di portarli in ogni luogo.
Tu sei una millennial, quindi non sei proprio cresciuta con i social. Per capirci, conosci un mondo pre e post: pensi che, senza le piattaforme, avresti avuto un rapporto diverso con la maternità?
Sicuramente i social hanno avuto e hanno impatti su ogni tipo di rapporto e quindi anche con la maternità. Sono rimasta incinta di Giovanni all’età di 28 anni, in un momento in cui nessuna delle mie amiche aveva già avuto figli. Non avevo quindi un confronto vicino di coetenee. Libri, web e social sono stati per me fondamentali per entrare in questo nuovo mondo.
Pensandoci, i social sono stati un grandissimo strumento di informazione e supporto, e lo sono tutt’oggi: penso alle community che abito su FB, dove posso trovare sempre la risposta a ogni bisogno, dal consiglio di acquisto al nominativo della brava pediatra, al sostegno in momento di sconforto.
L’altro lato della medaglia è chiaramente il confronto e pressione sociale. La maternità è spesso vista come performance, un riuscire a fare tutto e perfetto. Sui social la condivisione di profili che parlano di maternità rimandano a immagini impeccabili, dove tutt* sono costantemente truccati e pettinati. Sappiamo bene che la realtà è diversa ma quella roba la vedi ed essendocene tanta è difficile ignorarla.
Sicuramente senza i social media, il confronto sarebbe stato più limitato alle cerchie ristrette, riducendo forse la pressione di conformarsi a standard irrealistici. Allo stesso modo, però, non avrei avuto accesso a informazioni e comunità preziose.
Ecco una pagina IG che amo molto, lontano dalla perfezione materna: the bad pastina.
Credi che confrontarsi con altri genitori online abbia lo stesso effetto sia per i padri che per le madri?
Questa domanda mi riporta al tanto odiato ‘carico mentale’, quella continua e spesso invisibile responsabilità di gestire non solo le attività pratiche legate alla cura dei figli e della famiglia, ma anche la pianificazione, l'organizzazione e la supervisione di queste attività. Questo carico può avere un impatto significativo sul benessere di chi lo gestisce, sopratutto se non condiviso.
Il confronto con gli altri genitori spesso è necessario, parlo delle 87400 chat dell’asilo/scuola, di zona, quella con le nonne, quelle di basket, calcio, atletica, tiro col giavellotto…tutte necessarie a livello organizzativo ma chiaramente ‘da gestire’.
Sicuramente quello che vedo è che nelle chat di gruppo un buon 95% è rappresentato da madri, così come i gruppi social sono creati e abitati molto piu spesso da madri.
Noi ci siamo divisi il carico di tutte le attività, affrontando il tema con consapevolezza, e considerando che entrambi lavoriamo lo stesso numero di ore. Sedersi a tavolino con una lista di tutte le attività e decidere chi le fa può tanto aiutare a rendere visibile questo carico e condividerlo equamente.
Domanda di rito per chi passa da qui: c’è una cosa - può essere una persona, un progetto o uno stato d’animo - che invidi?
Una persona: Stefania Andreoli, che seguo, ammiro e invidio perché ha la risposta sempre giusta a tutte le mie domande e dubbi materni.
E poi il sonno. Okay, non è uno stato d’animo ma invidio tantissimo chi c’ha un buon rapporto 🙂
Angela
P. S. Ringrazio Giovanni Nava per le illustrazioni e tutte le cose belle di Invidiosa.
© 2024 Angela Cannavò.
Le illustrazioni della newsletter sono di Giovanni Nava.
Se vuoi leggere i vecchi numeri di Invidiosa, trovi tutto in questa pagina.
Grazie aver dedicato un po’ di tempo a me e a questa newsletter. E visto che sei qui, abbiamo qualcosa da invidiarci?
Fammelo sapere con un cuore, un commento o parlando di questa newsletter con chi ti va.
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Mi è piaciuta moltissimo questa puntata ed è questa la direzione che seguo per riflettere sulla maternità, una conversazione ampia, articolata e lontana da inutili polarizzazioni. 🩷
Siamo in molte a subire i social quando si tratta di maternità. Io sono la prima. Mi fanno sentire molto spesso inadeguata, troppo grassa, troppo brutta, troppo disordinata, troppo poco creativa, troppo poco paziente. Sto molto meglio da quando ho smesso di seguire tutte quelle bellissime dolcissime e magrissime mamme bionde. Ma non ho potuto non scrivere un pezzo su Ballerina Farm quando ho visto un reel in cui lei faceva pane e burro. Lo faceva LETTERALMENTE, con latte lievito e farina. E io a scongelare sofficini. Spero di non disturbare nessuno mettendovi il link qui. https://open.substack.com/pub/overthinkermami/p/pane-e-burro?r=1nq5bu&utm_campaign=post&utm_medium=web