Si può scegliere di non invidiare?
Ci ho provato con la cucina: ecco com’è andata a finire.
Questo è il nuovo episodio di Invidiosa, la newsletter sulle cose che fanno gli altri mentre io sto a guardare. È bello rivederti 👋
Dopo mesi passati a parlare di cose che mi fanno mangiare le mani, è un po’ strano fare un'intera puntata su una roba che non invidio. Devo essere più precisa, però, perché non voglio indagare cosa succede quando un certo tema non mi interessa (gli insetti li lascio volentieri alle persone appassionate di entomologia, per capirci). Quello che voglio capire è cosa succede con gli argomenti che rifiuto, un po’ per partito preso e un po’ per irritazione. C’è tutta una sfera di interessi che, credo, scegliamo di tenere lontani perché non si sposano con l’immagine che abbiamo di noi. E non ha senso provare invidia per qualcosa che riteniamo distante, in teoria.
Ma cambia qualcosa, in casi come questi? Sto barando? O forse mi sto raccontando una bugia “buona”, di quelle fatte per non affrontare certe questioni di petto?
L’oggetto della non-invidia in questione è la cucina. O meglio, per anni ho creduto di non invidiare chi cucina bene o ama cucinare. Ne ho fatto addirittura una piccola bandiera, una questione identitaria. “Ciao, io sono Angela: faccio la copywriter e non cucino” è stata la mia presentazione per un sacco di tempo. A leggerla nero su bianco mi sento anche un po’ ridicola, ma amen. Il punto è che cucinare davvero mi interessa poco: sulla carta, quindi, non ho motivo di invidiare chi ama farlo o ha un talento innato. La conseguenza più immediata di questo è che, ovviamente, non cucino bene.
Chi mi conosce lo sa, preparo sempre il minimo indispensabile per sopravvivere ed è molto improbabile che riceverai un invito a mangiare da me (a meno che non ti vada bene ordinare cinese). Per molto tempo questa cosa non mi è pesata, perché vedevo dentro la cucina un sacrificio che superava i benefici. Mi piace mangiare bene, ma tutta quella fatica lì non sono mai stata disposta a farla: non mi interessano Masterchef, il lievito madre, le ore a pulire verdure e pesce perché io ho ben altro da fare. La mia naturale pigrizia, infatti, viene stuzzicata dall’idea che ci sia sempre qualcosa più importante che “perdere tempo” a cucinare. Ecco, non è cucinare in sé il problema, ma l’idea che non debba e non possa essere una priorità.
Ecco perché dichiarare la mia indifferenza mi aiutava a raccontare (e raccontarmi) che tipo di persona sono. Se però definirsi per contrarietà è un modo lecito per staccarsi dallo sfondo, è anche una scorciatoia facilona per non guardarsi dentro. Alla fine della fiera, una sagoma grigia su uno sfondo colorato sempre grigia rimane. Ma perché ce l’ho tanto con la cucina? Perché è una questione molto più identitaria di quanto pensiamo: in Italia parliamo di cibo mentre mangiamo, ci facciamo la guerra sulle ricette e investiamo il cibo di un valore affettivo e storico gigantesco, tanto da farlo diventare un argomento politico. E credo che il mio bisogno di starne alla larga abbia delle ragioni politiche.
Le persone, in media, sono molto sorprese quando scoprono che non mi piace cucinare. Io, una donna del Sud, che non amava cucinare? Inconcepibile! Come se le donne - specialmente da Roma in giù - fossero un monolite di desideri, pensieri e opinioni tenuti insieme da salde fondamenta di melanzane fritte. La frustrazione che provo quando vengo data tanto per scontata è difficile da spiegare. Così ho scelto di rivendicare il contrario, e la gioia di fare qualcosa di buono col cibo l’ho lasciata ad altre persone.
Nella mia famiglia, poi, la cucina è sempre stata una questione di potere. C’è chi aspettava che il cibo venisse cucinato - cioè mio padre, ma anche io e mio fratello - e chi invece lo cucinava ed era l’ultima persona a sedersi a tavola, cioè mia madre. C’era chi portava a casa improbabili “regali” culinari e li pretendeva a tavola, e chi passava ore e ore del proprio tempo libero a pulire, disossare, a volte anche lottare (meglio non approfondire) con il cibo. C’era chi si sporcava le mani e chi si lamentava perché non c'era abbastanza sale, troppo olio, troppe verdure, la pasta non la voglio. C’era chi si aspettava che le cose sarebbero rimaste così per sempre e che, quando la vita ci ha chiesto di cambiare abitudini, ha scelto il cibo, l’orario in cui si mangiava o la qualità del cibo come campo di battaglia. La cucina è politica perché è anche una questione di genere.
Poi c’è l’ansia della gente a cena, degli ospiti a Natale, del confronto con l’amica che sembra aver ricevuto in culla il dono delle Fate Madrine ogni volta che mette le mani su qualcosa di commestibile. Ho visto famiglie usare il cibo come arma, donne trasformarsi in battaglioni ed entrare in una competizione che non ha a che fare solo con la bontà di quello che hanno preparato ma con il valore del loro tempo, il valore dei legami che hanno stretto e il loro stesso valore come persone. Cosa c’è da invidiare in un’attività che diventa la spia dei rapporti di potere? Così mi sono tirata fuori dai giochi e ho costruito un’immagine che partiva dal bisogno di non essere etichettabile.
Nel frattempo, però, mi sono persa un sacco di cose che hanno a che fare col cibo. Sono ancora molto pigra e sono ancora molto impaziente - quando ho fame, ho fame subito -, ho una dieta abbastanza noiosa e prevedibile e ho rinunciato alla soddisfazione di mangiare una cosa buona fatta con le mie mani. Non mi azzardo a cucinare nulla per le altre persone (un po’ per non avvelenarle, un po’ perché sono terrorizzata dal giudizio, un po’ perché non sono capace) e quelle rare volte che mi avventuro fuori dal seminato devo seguire passo per passo anche le ricette più semplici.
In questa situazione, scegliere di non invidiare ha spento la curiosità. Nel senso, dubito che un tocco di buona volontà mi farà passare da pippa al sugo a grand maître chocolatier ma la cucina, come ogni arte, richiede costanza e studio. E io ho sprecato un sacco di tempo ad accontentarmi di capresi, spinacine, tortellini pronti e noodle essiccati, quando invece avrei potuto mettermi alla prova e magari sconfiggere un po’ di quell'impazienza affamata. Mi sono persa il cameratismo della cucina, la certezza di avere un ruolo indispensabile in mezzo alle altre mani che friggono, impastano, tagliano e mescolano. Ho rinunciato al piacere di vedere le persone felici per una cosa fatta da me, che è sempre un atto creativo. Mi sono sentita esclusa e ho escluso, evitando di parlare di cucina finché non è diventata un lavoro (la vita, che burlona).
È difficile parlare bene dell’invidia senza darle un valore qualitativo. In genere cerco di evitarlo ma questa volta sento di poter fare un’eccezione. Perché l’invidia è il mio cruccio e il mio macigno, ma è anche quella cosa che - parafrasando quello che ha detto nell’intervista che ha fatto per questo episodio di Invidiosa - fa da liquido di contrasto. Cosa c’è, nelle aree che sono rimaste scure? Una versione di me che conosco già o un pezzo che ho anestetizzato per non sentirlo più? Forse è il momento di scoprirlo.
Smontare il tabù, con Silvia Bononi
In questa sezione parlo di invidia e tanto altro con una persona diversa ogni due settimane. Se vuoi dire qualcosa, hai in mente un tema o vuoi toglierti un sassolino dalla scarpa, sono qui.
Nata a Rovigo, dopo aver frequentato il liceo classico per volere del nonno paterno che minacciava di diseredarla, Silvia Bononi si trasferisce a Milano per studiare economia aziendale presso l’università Bocconi per volere, questa volta, del padre.
Nessuna delle due “scelte imposte” è stata mai rimpianta.
Dopo la laurea magistrale si occupa per nove anni di Internal Audit, Risk and Compliance in un’importante società di consulenza direzionale. Col tempo capisce che quel mondo non le appartiene e fa la sua scelta, anch’essa come le precedenti mai rimpianta. Un giorno molla tutto per seguire quelle passioni che l’avevano rincorsa quando lei era da tutt’altra parte: il vino in primis, poi la cucina e la scrittura. Ottenute le certificazioni di sommelier e il WSET level 3 (Wine & Spirits Educational Trust, principale riferimento a livello internazionale per la formazione in materia), attualmente sta avviando la sua attività di ghostwriter per i professionisti del mondo del vino, con la quale si propone di promuovere un nuovo paradigma comunicativo per il settore che possa parlare un linguaggio universale, capace di attrarre, anziché respingere, il grande pubblico.
La mia diffidenza per la cucina ha molto a che fare con il modo in cui me l’ha trasmessa la mia famiglia. Nel tuo caso, soprattutto per quanto riguarda la passione verso il vino, è andata in modo completamente diverso: ti va di raccontarmi com’è scattata la scintilla?
Innanzitutto, ci tengo a ringraziarti per aver pensato a me per questa intervista.
Per rispondere alla tua domanda, è successo tutto quasi per caso. Però hai ragione, la “famiglia” in qualche modo ha fatto la sua parte sia per quanto riguarda la cucina che il vino.
Ho intrapreso il percorso di sommelier più o meno all’inizio della pandemia perché a un certo punto non ho più sopportato il disagio di non sapere mai come e cosa scegliere, nonostante il vino fosse in un certo senso nel mio DNA. Mio Nonno – con cui avevo un rapporto speciale, motivo per cui uso la maiuscola – era un imprenditore agricolo ed enologo di un certo livello, presidente per svariati anni di una cantina sociale della sua zona.
Così ho iniziato con un corso di degustazione/avvicinamento, convinta che mi sarei accontentata semplicemente di saperne qualcosa in più. Poi – come in realtà spesso accade a chi inizia a studiare la materia – ho scoperto un mondo meraviglioso che mi ha stregata e legata a sé. Fin da subito ho sentito di farne parte come mai mi era capitato prima in altri ambiti. Mi piace pensare che, come io e il Nonno ci siamo scelti perché caratterialmente affini, così il vino abbia scelto me. E quando io ho detto di sì è stata gioia vera!
La cucina è arrivata più o meno nello stesso periodo e più o meno allo stesso modo: prima in punta di piedi, poi prendendosi sempre più spazio, diventando per me valvola di sfogo, fonte di energia positiva e serenità mentale.
In quei mesi, infatti, la convivenza non programmata e sulla carta molto prematura, con quello che è il mio ragazzo da oltre cinque anni mi ha dato modo di sperimentare in questo terreno, da sempre per me fonte di attrazione fatale. Perché, parliamoci chiaro: passione sì, ma da sola sarei andata avanti a insalatone con “beneficio di varianti” ogni tanto. D’altronde anche la cucina, così come il vino, trova nella condivisione la sua vera essenza.
La mia è una cucina che nasce dalla creatività mista a una forma di intuito. E forse anche dalla genetica. Per me cucinare è sempre stato qualcosa di estremamente naturale dato che sono cresciuta circondata da donne che cucinavano, in primis mia mamma. Lei è una vera padrona di casa e da sempre adora organizzare cene con amici e parenti (e io ora faccio lo stesso, ma lei resta sempre la migliore!). Per non parlare della mia nonna paterna con i suoi famosi e ineguagliabili cappelletti ferraresi, la cui ricetta è tuttora custodita come il Sacro Graal.
Per certi versi la mia è una cucina un po’ folle e audace, che non ha mai temuto di sperimentare nuovi abbinamenti – e non sempre con successo! È stato un percorso, esattamente come tutto il resto. Il mio percorso.
Non ho mai provato gusto a fare “piatti standard”, già visti e già assaggiati. Quando ho iniziato cercavo delle ricette con accostamenti di ingredienti particolari e insoliti, ma – sono sincera – ho sempre avuto dei seri problemi a replicarle fedelmente (ecco, a Masterchef non avrei fatto una gran figura se, quella volta che ho provato a partecipare, mi avessero presa!).
Seppur all’inizio mi mancassero oggettivamente le basi, volevo sempre qualcosa di nuovo e unico tutti i sacrosanti giorni, soprattutto la sera. Ancora oggi raramente preparo lo stesso piatto alla stessa maniera più di un paio di volte, a meno che non sia un “cavallo di battaglia” che di solito mi gioco nelle occasioni in cui voglio fare bella figura.
In un secondo momento ho iniziato a combinare preparazioni di ricette diverse, già sperimentate singolarmente, per crearne di nuove, totalmente “mie”. Così ho acquisito sempre maggiore sicurezza e consapevolezza sia degli ingredienti che delle tecniche che potevo utilizzare.
Adoro ricercare il difficile equilibrio tra gusto, leggerezza ed estetica in un continuo gioco di sapori, colori e consistenze. È una cucina, la mia, che (mi) diverte, (mi) fa stare bene e (mi) alleggerisce la mente appagando il palato senza appesantire la linea!
Poi magari sono quella che dopo averti preparato il piatto da ristorante gourmet scivola su una semplice carbonara – che peraltro non è assolutamente facile da preparare come si deve – ma va bene così!
Anche se ora non le dedico più l’attenzione (e il tempo) di prima, la cucina per me è stata fondamentale e sempre lo sarà.
Un po’ di tempo fa mi dicevi che il mondo del vino, secondo te, usa un linguaggio ancora troppo complesso che tende ad allontanare le persone. O meglio, è un linguaggio che non le invita ad approfondire. Perché succede? Ti sei fatta un’idea sul motivo di questa “settorializzazione” che resiste?
Sono sempre più convinta che al mondo del vino serva – ora più che mai – un linguaggio nuovo e meno “scoraggiante in partenza”. Ci sono troppe barriere; economiche, certo, ma soprattutto culturali. E lo dico perché l’ho provato sulla mia pelle. Nel corso dei miei studi, fin dall’inizio, mi sono scontrata con una complessità intrinseca della materia – di fatto ineliminabile – fonte infinita di fascino e magia, ma al tempo stesso altrettanto respingente. Sembrava che esistesse un unico modo per spiegare determinati concetti, di fatto al limite del comprensibile. Un unico indecifrabile flusso logico degli argomenti, un unico linguaggio, così peculiare da assumere quasi la forma di una lingua a sé, solo per addetti ai lavori. E mi ha richiesto uno sforzo non indifferente per cercare di venirne a capo, a suon di schemi e approfondimenti che incrociavano le fonti più disparate. Così, dopo tutta ‘sta fatica (fonte, va detto, di altrettanta soddisfazione), ho iniziato domandarmi se l’oggettiva necessità di utilizzare termini estremamente specialistici – su questo non si discute – fosse davvero incompatibile con una maggiore chiarezza comunicativa. In fondo, se dopo tutti gli anni di liceo solo all’università ho finalmente capito un po’ di filosofia perché quel professore spiegava per farsi capire, allora forse è possibile cambiare rotta e definire una nuova via, più semplice e accessibile a tutti, anche per il vino.
Per questo sto cercando di dare una forma concreta a tutte le risposte che mi sono data in questi anni, costruendo quello che mi piace definire un “nuovo paradigma comunicativo” perché – diamine – complesso non vuol dire per forza anche complicato. La differenza è sottile, ma cruciale.
E proprio su questo confine sto costruendo la mia offerta di servizi di scrittura per i professionisti del mondo del vino, le cui fondamenta poggiano sull’utilizzo di escamotage narrativi e creativi per organizzare i contenuti in modo da aumentarne la leggibilità e la semplicità percepita.
Ho già fatto il primo grande passo in questa direzione scrivendo un libro, che dovrebbe uscire a dicembre per Albatros il Filo (sono elettrizzata al solo pensiero). Si intitola Vinotopia ed è un romanzo che racconta una storia di amicizia, di rinascita e di trasformazione in cui il vino diventa a tutti gli effetti un personaggio con caratteristiche fisiche e comportamentali che richiamano le reali caratteristiche organolettiche, facilitando in questo modo la comprensione, la memorizzazione e la condivisione delle informazioni.
Quello che mi propongo di fare – me ne rendo conto – è anche molto insidioso, perché la semplicità potrebbe, ahimè, essere facilmente fraintesa come inadeguatezza se nella semplificazione si omettono gli elementi sbagliati. E tutto rischierebbe di diventare semplicistico anziché semplificato. Oltre a questo, bisogna vedere se il mondo del vino ha davvero voglia di scendere da quel piedistallo da cui da tempo immemore si fa guardare, se è pronto a capire che non per questo perderà la sua autorevolezza di sempre.
A nessuno piace perdere tempo per trovare le informazioni che sta cercando. Questa è la grande verità e io sono determinata a dare concretezza a questa affermazione. Almeno ci proverò, perché il vino merita di essere per tutti!
Domanda inevitabile per chi passa da Invidiosa: c’è qualcosa - può essere una persona, un progetto o uno stato d’animo - che invidi?
Per quanto questo sia un sentimento che non penso mi appartenga più di tanto, non ho problemi ad ammettere che invidio chi, diversamente da me, “ci ha preso subito” e adesso è già più avanti nel suo percorso professionale. Invidio terribilmente chi può dire: "Sono 10 anni che lavoro nel mondo del vino". È un livello di maturità ed esperienza che desidererei subito anche per me, ma che ovviamente non ho perché non ho iniziato prima. Allo stesso tempo, mi sento incredibilmente fortunata perché ho avuto l'opportunità e il coraggio di capire come cambiare rotta alla mia vita, proprio come mi propongo di fare per la comunicazione del vino. Sarà faticoso e rischioso, ma tutto questo non farà altro che temperare la mia attitudine, attualmente piuttosto scarsa, ad avere pazienza. Andrò avanti col mio passo, perché sono certa che questa sia la mia strada e arriverà il giorno in cui potrò dire anch'io con fierezza: "Sono 10 anni che lavoro nel mondo del vino".
Nel frattempo, stringo i denti e vado avanti anche grazie a chi è sempre al mio fianco tra giorni alti, bassi e anche bassissimi, sorreggendomi ogni volta che metto tutto in dubbio, vacillo. Prima di crollare mi rimetto in piedi e, a testa alta, torno a credere in me stessa e nel mio progetto.
P. S. Ringrazio Giovanni Nava per le illustrazioni e tutte le cose belle di Invidiosa.
© 2024 Angela Cannavò.
Le illustrazioni della newsletter sono di Giovanni Nava.
Se vuoi leggere i vecchi numeri di Invidiosa, trovi tutto in questa pagina.
Grazie aver dedicato un po’ di tempo a me e a questa newsletter. E visto che sei qui, abbiamo qualcosa da invidiarci?
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