Invidiosa si prende una pausa da luglio a settembre: un po’ perché sarò in giro, un po’ perché ho bisogno di ricaricarmi e capire come - e se - cambiare qualcosa da queste parti.
Nel frattempo, darò una rispolverata a vecchi episodi scritti prima di arrivare su Substack e che forse non hai ancora letto: non ci saranno interviste o progetti da segnalare, solo un po’ di riflessioni fatte durante il primo anno di vita di questa newsletter.
L’episodio di oggi è uscito il 5 novembre 2023 e parla di cosa succede dall’altro lato della barricata, quando l’oggetto dell’invidia sei proprio tu. Ho cambiato leggermente la conclusione per una storia che ho letto di recente, già vista, già sentita e comunque tragica.
Buona lettura!
P.S. Secondo te, chi vince alle Olimpiadi un po’ di invidia se la becca?
Ciao, come stai? 👋 Io sono Angela e questa è Invidiosa, la newsletter che parla di pensieri scomodi e soluzioni per maneggiarli.
Qualche settimana fa un mio amico mi ha raccontato di aver sentito, forte come non gli capitava da un po’, di essere invidiato. Non era un’invidia malevola, ma una naturale risposta a una cosa incredibile che gli sarebbe successa di lì a poco. Lui, infatti, non si sentiva sotto attacco; piuttosto, provava un grande senso di vergogna per la posizione in cui si trovava. Come se non la meritasse. Ora, non voglio assolutamente imbarcarmi in una discussione sul merito. Quella conversazione, però, mi ha fatto pensare che su questi schermi non ho mai provato a vedere cosa succede di là, dalla parte di chi l’invidia la subisce. È anche normale, a pensarci: visto che l’invidiosa sono io, finisco per parlare di quello che conosco. So come mi sento, che tipo di desideri ho e in che modo mi giustifico. Do per scontato, addirittura, che chi si becca la mia invidia non lo sappia nemmeno. E invece, un po’ di malocchio lo spargo sempre.
La parola invidiare arriva dal latino in-videre, cioè guardar male. Si pensava, infatti, che invidiare qualcuno e guardare con odio ai suoi successi fosse sufficiente per lanciare una non meglio precisata maledizione, cioè il malocchio. Nella tradizione, chi subisce il malocchio sente nausea, giramenti di testa o un grande spossamento. L’attacco non cerca di intervenire sul motivo dell’invidia, ma è proprio un attacco personale. Si arriva a un punto di superstizione tale per cui, in alcune regioni del Mediterraneo, i complimenti devono essere seguiti da un molto pragmatico “che Dio ti benedica”, in caso tu voglia evitare di gettare involontariamente il malocchio su qualcuno.
I danni, tornando ai giorni nostri, non sono certo fisici. Chi si sente addosso gli occhi dell’invidia può provare un grande senso di solitudine e di sfiducia. Se dovessero scegliere tra il supporto di un gruppo di pari o essere invidiate, molte persone preferirebbero ridimensionare i loro successi – o quello che dà loro felicità – pur di non essere messe su un piedistallo e isolate da quello stesso gruppo. Oppure, molte persone mettono in discussione il motivo per cui vengono invidiate: quando subentra la sindrome dell’impostore è più facile indicare il caso, la fortuna e una serie di combinazioni felici come i responsabili per quel successo; chi ci invidia ha solo avuto più sfortuna di noi. Così il diritto alla felicità si assottiglia, e il senso di solitudine e ingiustizia aumenta.
Ma la natura umana è perversa. Se è vero che vogliamo fare parte di un gruppo, l’invidia è anche un metro per giudicare i nostri successi. Vogliamo il piedistallo, la distanza – anche economica – da chi reputiamo inferiore. Questo fortissimo bisogno di risultati e competitività è alimentato non solo dai social, ma anche da tonnellate di letteratura e cinema. La narrativa imperante è che il successo è nel nostro destino, e così passiamo la vita a cercare di comportarci come protagonisti e protagoniste di una narrazione. E più successo otteniamo, a dispetto dall’invidia che generiamo, più successo vogliamo ottenere. Sembra quasi che il bisogno di essere invidiati si sostituisca all’autostima.
Insomma, l’invidia non fa solo male a chi la prova. È un “peccato” a doppio senso, che può smontare la fiducia di una persona o farla diventare dipendente dalla quantità di “invidia” che riceve. Credo che sia necessario, anche per gestire meglio la competizione continua a cui siamo sottoposti ogni giorno, provare a capire cosa ci fa l’invidia. È naturale provarla, è naturale subirla, è necessario riconoscerla.
P. S. Queste illustrazioni belle le ha fatte Giovanni Nava, che non ringrazierò mai abbastanza. Lo trovate sempre qui
© 2024 Angela Cannavò.
Le illustrazioni della newsletter sono di Giovanni Nava.
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