Invidiosa #18 - Una certa, cinica soddisfazione
Da dove arriva? Ma soprattutto, dove ci porta?
Ehilà, tutto bene? 👋 Ecco il nuovo episodio di Invidiosa, la newsletter dove parlo delle cose che fanno gli altri mentre io sto a guardare.
Nelle ultime settimane ho riflettutto sul fatto che certe storie - o meglio, tipi di storie - ci danno molta più soddisfazione di altre. E con soddisfazione intendo proprio quel senso di appagamento, quella chiusura del cerchio che ti fa dire “bene, mi sento fisicamente meglio dopo questa bella scorpacciata di cose che vanno nel verso giusto”. Facciamo un esempio pratico, partendo da quelle che vengono raccontate come “Cinderella story” o storie di “underdog”: le storie dove i Rocky, gli sfavoriti, le persone sui cui non punteresti un soldo riescono - dopo sudore e training montage con musiche motivazionali - a vincere. Abbiamo bisogno di queste storie e non sto nemmeno a dire perché: ci rimettono in controllo quando sappiamo bene che spesso il successo dipende da fattori esterni. Insomma, se ci piacciono c’è una logica.
Un po’ meno immediata, forse, è la soddisfazione che ci danno le parabole discendenti di chi ha toccato il successo, col successo ha strafatto e dal successo è stato scaricato o scaricata. Potremmo spiegarcelo con la shadenfreude, quel sentimento che i tedeschi identificano come la “cinica gioia per le disgrazie altrui”, però manca qualcosa. La shadenfreude infatti è democratica, la si può provare per chiunque a prescindere da meriti e demeriti. Anzi, di solito la proviamo per persone che conosciamo direttamente o che hanno qualcosa a che fare con noi. C’è un ottimo esempio di questo nell’ultimo episodio di Dylarama, la newsletter di Siamomine. Quello che invece credo ci dia più soddisfazione nelle grandi cadute è la distanza. Quelle storie lì non hanno niente a che fare con noi: è la più banale delle catarsi, dove il male rimane sullo schermo e noi abbiamo la libertà di allontanarci da questa storia radioattiva. Vedere crollare chi ha volato vicino al sole ci tranquillizza perché riporta tutto a un ordine che conosciamo meglio. Alla fine della fiera, la hybris è anche questo: chi ha raggiunto la vetta con arroganza ha tradito l’ordine delle cose. Non è che stiamo lì a strapparci i capelli per Icaro quando le sue ali si sciolgono. Non c’è nessun’altra “fine” concepibile per Walter White, per “citizen Kane” di Quarto Potere o chiunque sia stato all’apice, ne abbia abusato e abbia toccato il fondo poi. Queste storie non ci indicano solo dove non dovremmo andare, ma confermano che i valori dei “deboli” (definizione di Nietzsche, non mia) - un certo tipo di modestia, la solidarietà, l’amore per il bene collettivo al posto di quello individuale - sono giusti. Anzi, le parabole discendenti sono ancora più soddisfacenti se la sensazione diffusa è che, nella vita reale, chi pecca di tracotanza viene solo premiato.
Ecco, credo che l’odio rivolto a Chiara Ferragni negli ultimi mesi arrivi da questo posto qui. E credo anche che spieghi perché l’onda è stata così forte, così accesa. Online, le persone non si sono limitate a sorridere cinicamente alla caduta dal piedistallo. Abbiamo sentito - uso un plurale collettivo perché mi ci metto dentro anche io - finalmente la libertà di tirare giù questo “falso idolo”, di riportarla alla stessa altezza da dove l’abbiamo guardata per anni. Non abbiamo più avuto bisogno di rosicare per la sua fortuna e ridimensionarla nel nostro intimo, perché abbiamo avuto la prova che la sua intera potenza era basata su una bugia. L’Antitrust ha fatto il bambino che urla “Il re è nudo”, e non c’è nulla da invidiare a una persona che gira senza protezioni con l’intera stampa italiana che le scampanella “Shame!”. Insomma, io non credo che la rabbia che questa storia ha provocato dipenda solo dai bambini, dall’ipocrisia o dalle pessime scuse (mi dispiace se voi avete frainteso). Credo che tutto il risentimento covato verso Ferragni - e quello che rappresenta - sia venuto fuori come il magma che trova una crepa. Non è solo una questione di “the bigger they are, the harder they fall”. È che limitarsi a gongolare per la sua caduta, vista l’altezza, non sarebbe mai stato abbastanza soddisfacente.
Invidia illustre
Questa settimana mi sono presa una pausa dalle interviste e ne ho approfittato per fare un piccolo esperimento: una rubrica estemporanea su invidiosi e invidiose di un certo calibro. Non sarà un appuntamento fisso, perché mi piace l’idea che certi aneddoti arrivino per caso. A proposito, se ne avete qualcuno lasciatelo nei commenti. E ringrazio Bruna Crapanzano per il suggerimento inconsapevole di questa rubrica.
Dicevamo, il caso. Sto finalmente leggendo “L’anima delle città” di Jan Brokken (finalmente perché mi fissa da 3 annetti dalla libreria, ehm). Quello che conta è esserci arrivata perché il libro è una coccola e, nonostante la voce narrante un po’ troppo presente in alcuni momenti, Brokken riesce davvero a raccontare l’atmosfera di un posto attraverso gli occhi di chi ci ha vissuto. Nel capitolo dedicato a Bergamo (bella bellissima Bergamo, vi prego fateci un salto), Brokken racconta la vita e l’incredibile successo di Gaetano Donizetti. Il compositore, a un certo punto della sua carriera, decise di provare a conquistare Parigi: solo quello avrebbe sancito definitivamente il suo successo. Racconta Brokken che, vedendoselo arrivare lì, il “cigno” Vincenzo Bellini - il compositore più famoso del periodo, la sua “I puritani” era l’opera preferita della giovane regina Vittoria - iniziò a evitarlo come la peste, tale era l’invidia che provava per la bravura di Donizetti. Ora, io di Bellini sento parlare da quando ho imparato a leggere e scrivere (era nato a Catania) e l’ho sempre immaginato come questo giovane bellissimo, delicato e romantico. L’idea di questa invidia così potente verso il collega me lo rende, finalmente, un po’ più umano.
Tutta Invidia - Natura o cultura
Che newsletter sull’invidia sarebbe, senza qualcosa che mi ha fatto rosicare?
Okay, non sempre creo un legame tra il tema della puntata e l’oggetto della mia invidia. Nelle ultime settimane però è stato difficilissimo sentire qualcosa a proposito di Jannik Sinner e non pensare subito “ma perché non sono anche io così?”. A differenza delle persone protagoniste delle grandi parabole discendenti, a Sinner non si può dire proprio nulla: lavora, si spacca la schiena, gioca a tennis perché ama giocare a tennis e sembra allergico a ogni tipo di scivolone che un successo così grande può portarsi dietro. Sembra, e probabilmente lo è, una persona tutta d’un pezzo, come dopotutto sono tanti altri sportivi. E io, che sono composta al 60% di pigrizia e al 20% da procrastinazione, non posso non chiedermi se è una questione di carattere (e allora sono condannata) o di volontà (e allora è colpa mia che non mi impegno abbastanza). Ho sempre invidiato chi padroneggia con grazia la disciplina verso sé, ma nella trappola del “se vuoi puoi” non voglio cascare. Qual è, però, la soluzione? Accettare che io e Sinner siamo due persone diverse, o provare ad abbassare le percentuali? Mandate rinforzi, per favore.
Angela
P. S. Queste illustrazioni belle le ha fatte Giovanni Nava, che non ringrazierò mai abbastanza. Lo trovate sempre qui.
© 2024 Angela Cannavò.
Le illustrazioni della newsletter sono di Giovanni Nava.
Se vuoi leggere i vecchi numeri di Invidiosa, trovi tutto in questa pagina.
Grazie aver dedicato un po’ di tempo a me e a questa newsletter. Insieme a te la leggono 117 belle persone.
E noi due, abbiamo qualcosa da invidiarci?
Fammelo sapere con un cuore, un commento o parlando di questa newsletter con chi ti va.
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Applausi a questa idea degli aneddoti illustri ❤️
Quel rosicone di Bellini 😄
Bellissima newsletter, mi ritrovo molto nel senso confortante di distanza da certe cadute, pur con la coscienza perenne che domani toccherà a me 😅